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«Mai così tanta pioggia» (di click?): sensazionalismo che traduce alluvioni, ignorando storia, dati e scienza

DiAlessio Marrari

Apr 20, 2025

di Alessio Marrari

Negli ultimi quindici anni, l’Italia ha vissuto una sequenza drammatica, e spesso spettacolarizzata,  di eventi alluvionali. Dai titoli in prima pagina alle breaking news dei telegiornali, fino alla viralità delle immagini su social media, ogni episodio viene raccontato come una tragedia senza precedenti. “Pioggia mai vista”, “tempesta del secolo”, “il peggior disastro idrogeologico di sempre”: è questo il linguaggio dominante, impiegato con automatismo da buona parte dell’informazione italiana, che tende a trasformare ogni precipitazione intensa in un evento storico, ignorando sistematicamente la contestualizzazione climatica e storica. Ma quanto c’è di vero in queste affermazioni? E, soprattutto, cosa accade se mettiamo le narrazioni a confronto con i dati meteorologici reali, con gli archivi pluviometrici e con la letteratura scientifica? L’analisi degli eventi alluvionali dal 2010 al 2025 mostra una realtà più complessa, e meno spettacolare di quanto il racconto mediatico suggerisca.

Il contesto: perché i media enfatizzano gli eventi estremi

Nel sistema dell’informazione digitale, dove l’attenzione degli utenti è un bene raro e prezioso, le notizie devono bucare lo schermo. Il giornalismo, anche quello meteorologico,  si è adattato a questa logica. Le alluvioni, con la loro carica visiva, la rapidità con cui colpiscono e la facilità di attribuzione emotiva (danni, vittime, disastri), rappresentano un contenuto ideale per stimolare reazioni e condivisioni. Il problema è che, nel processo, si perde la distinzione tra l’effettiva eccezionalità di un fenomeno e la sua semplice intensità. L’informazione scientifica viene spesso ridotta a slogan, e la comunicazione del rischio finisce per alimentare più l’ansia collettiva che la consapevolezza territoriale. Il risultato è un’inflazione di titoli allarmistici che, paradossalmente, rischiano di anestetizzare l’opinione pubblica, impedendole di comprendere la reale evoluzione del rischio climatico e idrogeologico in Italia.

Quindici anni di piogge, titoli e disconnessioni

Dal 2010, ogni anno è stato punteggiato da almeno un evento alluvionale significativo, descritto sistematicamente come eccezionale. Tuttavia, una lettura cronologica e comparata dei dati mostra come molti di questi episodi, pur gravissimi, abbiano avuto analoghi storici, a volte anche più intensi, relegati all’oblio mediatico. Nel 2010, l’alluvione in Veneto fece notizia come “la più intensa degli ultimi 100 anni”, con 300–500 mm in poche ore. Ma l’alluvione del 1966, nello stesso territorio, produsse accumuli ancora superiori, e con impatti più diffusi. L’anno successivo, Genova tornò sotto l’acqua con 500 mm in poche ore: l’enfasi fu “evento senza pari”, ma già nel 1970 la città aveva subito un’alluvione con intensità e danni maggiori. Episodi simili si ripetono nel 2012 in Toscana, nel 2014 ancora a Genova, nel 2015 a Benevento, nel 2016 in Piemonte, nel 2017 a Livorno, nel 2018 in Sicilia, e nel 2019 di nuovo in Piemonte. In tutti i casi, il dato pluviometrico reale, da 200 a 600 mm in 24/48 ore, rientra nelle soglie già osservate nel XX secolo, sebbene con distribuzioni spaziali diverse.

Tra gli eventi più gravi si annoverano sicuramente quelli degli ultimi cinque anni. L’alluvione in Sardegna del 2020 (470 mm a Bitti), il “Medicane” che colpì Catania nel 2021, e soprattutto l’Emilia-Romagna nel 2023, dove si registrarono 300 mm in 48 ore, 21 fiumi esondati e danni diffusi su 37 comuni. Ma anche qui, la descrizione come “evento mai visto” appare parziale. In Liguria, nel 2014, si verificarono condizioni simili, seppure su un’area meno vasta. I record veri, però, arrivano nel 2024, quando tra il 17 e il 19 settembre, alcune zone alpine e prealpine del Nord registrarono tra i 1200 e i 1300 mm di pioggia in tre giorni: questo sì, un valore record per il periodo e la regione, che segna un punto di svolta anche nelle serie storiche.

Nel 2025, infine, il Piemonte è stato nuovamente protagonista: a Domodossola, 260 mm in 24 ore hanno superato il record locale dal 1988. A Borgone di Susa, 166 mm hanno infranto i limiti trentennali. Qui la stampa ha evocato, per una volta correttamente, i grandi eventi del 1994 e 2000, ma senza approfondire le dinamiche meteoro, logiche e idrologiche che rendono certi territori più esposti di altri. È infatti l’interazione tra pioggia, suolo saturo, urbanizzazione e fragilità idrogeologica a determinare il rischio, non solo il dato pluviometrico assoluto.

Dati, climatologia e sottovalutazione del rischio reale

Analizzando i dati meteorologici dell’ISPRA, del CNR-ISAC, di Arpa regionali e delle fondazioni come CIMA Research, emerge un quadro coerente con le proiezioni dei modelli climatici. Non è tanto la quantità assoluta di pioggia a cambiare (che resta in media annuale relativamente stabile), quanto la sua distribuzione temporale. Più spesso si registrano “bombe d’acqua”, eventi concentrati su poche ore, con caratteristiche convettive e difficilmente prevedibili. Il problema non è solo meteorologico: è idraulico e urbanistico. La cementificazione, la scarsa manutenzione dei bacini, l’espansione edilizia in aree esondabili, contribuiscono a trasformare ogni temporale intenso in potenziale disastro. Ma queste considerazioni raramente trovano spazio nei titoli.

Inoltre, il confronto storico è spesso assente. Invece di chiedersi “è mai successo prima?”, l’informazione si limita a “quanto è virale adesso?”. Eppure, le serie storiche mostrano che molti territori italiani hanno vissuto, anche nei decenni passati, eventi di pari o superiore entità. Nel 1882 Venezia finì sott’acqua con piogge intense e laguna satura. Nel 1935 il Piave ruppe gli argini. Nel 1951 il Polesine vide una tragedia con decine di morti. Nel 1994 e nel 2000 il Piemonte visse due tra le peggiori alluvioni della storia moderna. La memoria meteorologica è corta, quella giornalistica ancora di più.

Le vere sfide: informare, non intrattenere

La questione non è negare l’aumento degli eventi estremi — che esiste, ed è confermato da tutte le principali istituzioni scientifiche — ma smascherare la narrazione gonfiata, decontestualizzata, spesso strumentale. Parlare correttamente di alluvioni significa inserire i fenomeni in serie temporali, distinguere l’eccezionale dallo straordinario, spiegare le cause fisiche e antropiche che aumentano la vulnerabilità. Significa anche spiegare che i cambiamenti climatici non rendono “ogni pioggia un record”, ma aumentano la probabilità di eventi rari, rendendo più frequente l’infrequente. Serve alfabetizzazione climatica, non solo allarme.

L’Italia, con la sua orografia complessa, la varietà microclimatica e la fragilità strutturale, è particolarmente esposta al rischio idrogeologico. Ma il rischio si gestisce anche con la comunicazione. Il giornalismo ha la responsabilità di non cedere alla trappola della viralità, evitando un linguaggio che spettacolarizza il dolore e banalizza la complessità. Se davvero vogliamo prepararci a un futuro di eventi meteorologici più intensi, dobbiamo iniziare a raccontarli meglio. E per farlo, serve meno allarmismo e più informazione.