di Alessio Marrari
Amore e protezione, non numeri: quando la burocrazia tenta di cancellare ciò che il cuore sa
La sentenza della Corte di Cassazione che ha cancellato l’obbligo di indicare “padre” e “madre” sulla carta d’identità dei minori non rappresenta una novità assoluta, ma piuttosto un ritorno a quanto già previsto in passato, nel rispetto di tutte le tipologie di famiglia. Già la legge del 1931, infatti, utilizzava la formula più neutra “genitore o chi ne fa le veci”. Con questa decisione, i giudici hanno respinto il ricorso del ministero dell’Interno contro la scelta della Corte d’Appello di non applicare il decreto ministeriale del 31 gennaio 2019, che imponeva l’uso obbligatorio delle diciture “padre” e “madre”. Si è riaccesa una polemica incandescente che attraversa l’intero tessuto sociale del Paese, respingendo il ricorso del ministero dell’Interno contro una Corte d’Appello che aveva osato disapplicare il decreto ministeriale del 2019 in nome di principi costituzionali interpretati secondo ideologie che dividono la nazione. L’ossessione di una certa sinistra che, da anni, sembra disinteressarsi ai problemi reali del Paese, fossilizzandosi su questioni simboliche di poco conto, risulta più utile a generare scontri ideologici con le destre che a risolvere i nodi concreti della società – una sinistra che, con straordinario paradosso, dopo aver goduto di ampio tempo e ampie maggioranze per affrontare proprio quei problemi che oggi preferisce ignorare, sceglie di combattere guerre linguistiche invece di affrontare le vere emergenze italiane. Non è affatto discriminante indicare “padre” e “madre” su un documento, questo appare piuttosto naturale, coerente con la realtà affettiva e culturale di ogni bambino, mentre risulta assurdo ridurre queste figure fondamentali a etichette asettiche come “genitore 1” e “genitore 2”, creando una gerarchia implicita che tradisce lo stesso principio anti-discriminatorio che si pretenderebbe di difendere, una battaglia sterile che propone soluzioni banali, prive di calore e persino discriminatorie nei fatti. Le parole “Mamma e Papà” attraversano la storia, le lingue e le culture del mondo, cariche di affetto, di dedizione, di significato profondo, rappresentando figure centrali nella vita di ogni essere umano, e trasformarle in freddi numeri ordinali significa svuotare queste relazioni del loro senso più autentico in un atto di violenza semantica che colpisce al cuore l’identità stessa delle relazioni familiari. Pur riconoscendo pienamente il valore delle coppie omogenitoriali, sicuramente amorevoli e presenti quanto qualsiasi altra coppia, la bellezza linguistica e sentimentale delle parole più antiche e universali del mondo merita di essere rivendicata con coraggio, chiedendosi: “Perché mai dovremmo smettere di dire, senza vergogna e con il cuore in mano: Ciao mamma, ciao papà’?”, nella convinzione che nella vita servano spina dorsale, rispetto e amore verso chi quel nome se l’è meritato, non fredde formule burocratiche, ma relazioni vere, profonde, insostituibili, che nessuna sentenza potrà mai cancellare dal vocabolario emotivo di un’intera nazione.