Fenomenologia de “L’allenatore nel pallone”

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di Simone Balocco

 

Era il 1984: in Italia al governo c’era Bettino Craxi, al Quirinale Sandro Pertini, moriva Enrico Berlinguer, ci fu l’ultimo colpa di coda del terrorismo con la tragedia del Rapido 904 e nel Mondo veniva presentato il primo Mac. Calcisticamente, il Pallone d’oro era una cosa di Platini campione d’Europa con la Francia, mentre in Italia lo scudetto lo portava sul petto la Roma che il 30 maggio perse la finale di Coppa dei Campioni all’”Olimpico” capitolino contro il Liverpool.

Parlando sempre di calcio, quell’anno uscì il film comico sul calcio più famoso di tutti. Un concentrato di risate che ancora oggi, a fine 2018, sono un cult. Per mano di Sergio Martino, regista romano di film come “Giovannona coscialunga”, “Milano trema: la polizia vuole giustizia”, “Acapulco prima spiaggia a,..sinistra”, “Occhio malocchio prezzomolo e finocchio” e tanti altri, uscì “L’allenatore nel pallone”, con protagonista un incredibile Lino Bandi.

Italia, Paese di santi, poeti, navigatori…e amanti del gioco del calcio. Sono poche le Nazioni al Mondo che mettono al primo posto il calcio tra gli argomenti di discussione al bar, in cucina, tra amici o in ufficio. Il calcio da noi si vede ovunque, ma in un luogo questo sport ha avuto sempre poco spazio: il cinema. “L’allenatore nel pallone” era l’ultimo di una serie di pellicole incentrate sul calcio: da “Il Presidente del Borgorosso Football Club” a “Il tifoso, l’arbitro e il calciatore”, da “Eccezzziunale…veramente“ a “Paulo Roberto Cotechinho centravanti di sfondamento” e “Mezzo destro mezzo sinistro – Due calciatori senza pallone“, quest’ultimo uscito poco dopo sempre per mano di Martino. Sono anche usciti film drammatici sul tema, ma a noi interessa in questo caso la risata.

Vediamo perché questo film è stato un vero fenomeno cinematografico.

La trama: la Longobarda in Serie A ed è subito…calcio di provincia – La Longobarda era una squadra di provincia, la cenerentola al ballo delle debuttanti. Nell’ipotetico campionato di Serie A 1984/1985 si presentava questa squadra (si presume) lombarda al debutto assoluto in Serie A. Alla guida della squadra al termine del campionato precedente c’era Marcello Gangheri, ma il presidente, il commendator Borlotti, non volle affidargli la squadra affidandosi all’esperto Oronzo Canà. Canà però era un pessimo allenatore ed unito alla squadra che venne privata dei suoi giocatori più forti, si presenta come la squadra materasso del torneo, in pratica già retrocessa in estate. Dopo un avvio catastrofico, la squadra si imbarcamenò ma verso la fine del campionato ebbe un declino inesorabile e tutto si decide all’ultima giornata: se la Longobarda non batteva l’Atalanta, la squadra sarebbe retrocessa. A salvare la squadra ci pensò il solito Aristoteles, inviso al presidente ma amato da Canà e dai tifosi, che con una doppietta stese i bergamaschi permettendo alla Longobarda di rimanere in Serie A. La vittoria comportò l’esonero di Canà, poiché aveva “sciolto” il voto di non far giocare il brasiliano, ma il simpatico tecnico, nei festeggiamenti post salvezza, disse a Borlotti, in maniera poco elegante, che sua moglie lo tradiva non appena lui gli disse che da quel momento era disoccupato. Per amore dello sportività e del rispetto verso Aristoteles, Canà rifiutò di rimanere alla Longobarda anche la stagione successiva in Serie B a stipendio raddoppiato.

Nel complesso però, la Longobarda aveva giocatori mitici: i forti Mengoni e Falchetti ceduti per pochi spicci alla Juventus quando il presidente Borlolotti aveva promesso di non cederli, salvo poi immischiandosi in assurde trattative che avrebbero visto l’arrivo prima di Platini, poi di Rummenigge ed infine Maradona. Per avere il pibe de oro (nella realtà passato quell’estate per 13 miliardi dal Barcellona al Napoli), Borlotti avrebbe preso “i trequarti di Gentile, i sette ottavi di Collovati, la metà di Mike Bongiorno” e via subito Mengoni e Falchetti a Torino), capitan Speroni, prima assist man per Aristoteles e poi, visto che il brasiliano lo aveva adombrato, si vendicò di lui facendogli male apposta in campo, la coppia Sella e Cavallo (portiere ed ala) fino al mitico Fulgenzio Crisantemi, giocatore tutt’altro che forte acquistato dalla Longobarda nel mercato di novembre e dotato non solo di una flemma incredibile, ma anche dai tratti somatici che rispecchiavano la malasorte (volto bianco, capelli e baffi neri, numero 13 sulla maglia).

Per non parlare dello sponsor della squadra, il pastificio “Mosciarelli” che produceva una pessima pasta.

La Longobarda aveva anche dei propri tifosi, sugli spalti come tra le forze dell’ordine: i capi dei tifosi erano due gemelli che detestavano e amavano Canà alla stessa maniera: dai due pomodori schiacciati sul naso alle percosse in stazione fino a portare il “vate della Daunia” in trionfo “facendogli male” dopo aver raggiunto la salvezza.

Una bella storia di calcio romantico, nostalgico e passionale. Ma c’è di più in questa pellicola, molto di più.

L’allenatore: Oronzo Canà – L’allenatore di questa squadra con la maglia bianca e con un altrettanto strampalato sponsor era, come detto, Oronzo Canà, allenatore nativo di San Severo con un passato da calciatore come “mediano di rottura” che gli valse il soprannome di “volpe del Tavoliere”, con alle spalle molte panchine in Serie B come Bari, Brescia, Cavese, Foggia, Pescara, Sambenedettese e Parma e di cui possedeva i gagliardetti appesi in salotto e tante foto in bianco e nero con i campioni degli anni Settanta, ma senza arrivare in massima serie. Il destino di Canà si legò a quello del presidente della Longobarda, il commendator Borlotti, “un impulsivo, un istintivo”, che in diretta al “Processo di Biscardi”, invitato per raccontare il miracolo della sua compagine, annunciò che il nuovo allenatore per la stagione successiva sarebbe stato proprio Canà al posto di Marcello Gangheri che aveva già firmato con un’altra squadra di Serie A. Il diretto interessato, seduto a tavola, non appena sentì la notizia svenne e cadde per terra. Il desiderio dello scarso tecnico pugliese si stava realizzando: allenare per la prima volta in Serie A con la possibilità di coronare il sogno di incontrare il suo idolo, il “barone” Nils Liedholm, allora sulla panchina del Milan cui Canà si ispirava nello solo nella postura ma anche (non riuscendoci) nel self control.

Canà era un allenatore particolare non solo nel tipo di allenamento, ma anche nella conduzione tattica: il tecnico si vantava di essere l’inventore della “b-zona”, un modulo basato su un improbabile 5-5-5. Una sorta di “calcio totale” olandese in salsa comica che voleva prendere in giro i moduli degli allenatori di quel tempo.

Canà era il protagonista indiscusso della pellicola di Martino, quello sui cui girava l’intera vicenda. Un uomo burbero, sui generis, incapace nell’allenare ma onesto ed intransigente: voleva il massimo dalla sua squadra pur sapendo di avere tra le mani un materiale atletico molto scadente.

L’umanità e la rettitudine morale di Canà fanno da contraltare alla poca onestà di alcuni protagonista della pellicola,

La perla di Rio: Aristoteles – In campo il protagonista assoluto era invece un attaccante brasiliano alto e abile con il pallone visto giocare dalla tribune del “Maracanã” di Rio de Janeiro, Aristoteles (interpretato dall’attore svizzero Urs Althaus). Chiara parodia di Sócrates (ironia della sorte, passato la stessa estate dal Corinthians alla Fiorentina), Aristoteles fu il perno della squadra nonché il giocatore più forte. Grazie ai suoi gol, la Longobarda dopo un avvio shock (debutto contro la Roma con sconfitta per 5 a 1 con suo gol iniziale e tre miseri punti conquistati nelle prime sette giornate, tutti in casa, con la panchina di Canà che iniziava a vacillare), riuscì ad arrivare nelle parti alte della classifica. Peccato che a causa di un suo infortunio, causato dal capitano della Longobarda e suo rivale Speroni (nonché amante della moglie di Borlotti), la sua assenza dal campo si fece sentire e la la squadra ebbe un’involuzione spaventosa e scivolò in classifica in zona retrocessione.

Il bello della pellicola fu anche il rapporto “padre-figlio” Canà-Aristoteles, il offriva di saudade e non era ben voluto dai compagni. Canà sapeva di avere tra le mani un ragazzo forte con i piedi ma debole nella vita di tutti i giorni e decise di “adottarlo” come se fosse un secondo figlio. E lui, dopo che in ritiro Canà gli suonò una canzone a metà tra il brasiliano e il pugliese, ripagò l’affetto e la fiducia con gol pesanti che diedero fiato alla squadra e poi la salvezza. Di lui si innamorò Michelina Canà che sembrava avere trovato l’amore dopo tante storie finite male perché il padre veniva sempre esonerato e doveva sempre cambiare squadra. Grazie alla figlia, Canà “sciolse” il ricatto di Borlolotti e mise in campo Aristoteles al posto di Speroni nell’ultima giornata contro la Dea.

Personaggi secondari…primari – Oltre a Canà, ricoprono un ruolo importante nel film i due falsi mediatori sportivi Andrea Bergonzoni e Giginho (interpretati da Andrea Roncato e Gigi Sammarchi), che prendono in giro Canà millantando in Brasile conoscenze che non avevano per cercare di truffare sia lui sia Borlotti fingendo di portare in Italia Junior (usufruendo di un autografo del giocatore su un fazzoletto e fatto passare per un contratto vero e proprio) e poi Éder, usando in entrambi i casi sempre doppi sensi italo-portoghesi per trarre in inganno Canà. Epica è la descrizione di Giginho “fratello di leite” (“lecce”) di Junior, Socrates ed Éder, nonché uomo “con le mani in pasta”. Peccato che quella descrizione non voleva dire che avesse i contatti giusti e che conoscesse l’ambiente, ma che vendeva bibite e snack durante le partite del campionato brasiliano. E grazie a loro, per incontrare quello che si rivelerà essere un omonimo del “dottore” passato alla Fiorentina, Canà si fece operare di appendice, scoprendo che il Socrates di Rio era un medico gastrico di fama internazionale e non un ortopedico come il barbuto centrocampista passato nel mentre alla Fiorentina. Le figure di Bergonzoni e Giginho ricalcano le figure di coloro che hanno intermediato l’arrivo in Italia, in quegli anni, di colossali “bidoni” calcistici.

Degni di nota sono anche la moglie di Canà, Mara, attenta ai soldi e ad arredare la casa all’ultima moda; la figlia Michelina, innamorata corrisposta di Aristoteles e la suocera, che, nonostante fosse un ex mezzo soprano, praticava anche la magia vodoo ed ebbe effetto contrario la magia sul pallone calciato da Zico in allenamento (la Longobarda avrebbe dovuto vincere 4 a 0, ma invece perse con una quaterna dell’asso brasiliano), il giornalista Ceretti che non sopportava Canà e tutti gli incapaci nel mondo del calcio.

Questa “fauna” di personaggi è stato il corollario di una pellicola incredibile, divertente ed assurda al tempo stesso: fantastico era il dialogo surreale tra Canà e la centralinista del “Maracanã” per chiamare da lì sua moglie in Italia.

I camei celebri – Ma il punto di forza del film è stata la presenza di veri giocatori dell’epoca: da Luciano Spinosi (che scambiò Canà per Ezio Pascutti nella sede del calciomercato) a Roberto Scarnecchia, da Oscar Damiani a Sergio Santarini, gli allora calciatori della Roma Odoacre Chierico, Roberto Pruzzo (per cui Canà aveva una stima profonda non ricambiata), Francesco Graziani, Carlo Ancelotti e Zico; i giornalisti televisivi Giampiero Galeazzi, Fabrizio Maffei (telecronista dell’ultima partita in Serie B della Longobarda contro la Sambenedettese che nei fatti era Samb-Pistoiese), Aldo Biscardi, Giorgio Martino e Gianfranco Giubilo, oltre a Nando Martellini che fece la tele-cronaca dell’ultima partita di campionato della squadra di Canà. Per non parlare di Giancarlo de Sisti, il celebre “Picchio”, che grazie all’intermediazione di Bergonzoni si incontrò con Canà per discutere su un possibile pareggio “concordato” tra la Fiorentina (che allenava) e la Longobarda in quote “fifty fifty”: de Sisti capì che l’incasso della partita sarebbe stato diviso a metà e dato in beneficenza all’UNICEF e la Viola vinse 5 a 0.

Nel film è stato citato anche il nome di Junior, centrocampista brasiliano in forza allora al Flamengo, che grazie ai buoni uffici di Giginho passò al club di Borlotti con la firma del contratto nello spogliatoio della squadra rubro-negro. Peccato che il giorno prima il giocatore avesse firmato realmente con il Torino e quindi il duo Bergonzoni-Giginho aveva bidonato sia Canà sia Borlotti. Quando Canà seppe la verità (a seguito di una telefonata molto colorita con la moglie Mara Lagrasta in Canà dallo stadio “Maracana”) si arrabbiò come pochi con i due cialtroni. I quali, durante il soggiorno brasiliano del tecnico, lo faranno anche operare di appendicite da Socrates. Peccato che il chirurgo che operò Canà non fosse il calciatore (in effetti medico) ma un suo omonimo, arrabbiato con l’Italia che si portava via ogni anno i migliori giocatori del Brasile.

I più attenti avranno notato che le immagini degli stadi gremiti erano prese da immagini di repertorio, mentre le scene di gioco vere e proprio furono effettuate in campi improvvisati: il campo di Longobarda-Atalanta era delimitato da cespugli e non da gradinate festanti. Il motivo era semplice: non esistendo la Longobarda, le immagini degli stadi erano prese da partite degli anni precedenti dove giocavano squadre in trasferta con le maglie bianche, perché negli anni Ottanta non esistevano seconde (e terze) maglie dai colori sgargianti, ma tutte le maglie da trasferte erano bianche e quindi sembrava che davvero la Longobarda giocasse.

Perché “L’allenatore nel pallone” è un fenomeno – “L’allenatore nel pallone” è stato un film epico, un cult per gli appassionati del genere, un film che ancora oggi quando viene dato in tv lascia incollati davanti allo schermo milioni di italiani. Un film poco impegnato e scanzonato verso uno sport che iniziava prepotentemente ad entrare ancora di più nelle case degli italiani.

Cosa avrebbe di speciale un film incentrato sulla rivincita di un uomo che mette davanti a sé l’onore rispetto ai soldi e che salva la Cenerentola del campionato con un giocatore scoperto su un calcio polveroso brasiliano? Risate, rispetto, amicizia e senso del dovere.

La storia era vincente per i tempi che erano: il calcio allora era molto sentito, ma non come oggi, tanto che, non a caso, hanno fatto il sequel del film ventiquattro anni dopo, ma fu un fiasco totale, anche se il ruolo di Oronzo Canà vide ancora un Lino Banfi sul pezzo.

“L’allenatore nel pallone”, Oronzo Canà e la Longobarda sono esempi di un calcio che non voleva prendersi sul serio (già il titolo del film è un doppio senso), un calcio simpatico e mattacchione che canzonava la serietà di un mondo allora troppo ingessato. Per non parlare del nome: “Oronzo” come Oronzo Pugliese, mitico allenatore pugliese degli anni Sessanta-Settanta noto per la sua verve, i riti scaramantici (che Banfi riportò) e per il fatto che fosse un tecnico adatto alle provinciali invece che per le grandi squadre. Il suo modo di stare in panchina, il suo modo di esultare dopo un gol, le sue teorie calcistiche, le sue arrabbiature sui generis: un film che oggi non riempirebbe nessun cinema, ma che nel 1984 fece “strage” al botteghino e ancora oggi il suo share è elevato.

Essendo un cult, “L’allenatore nel pallone” rientra a pieno titolo tra i film “di Serie B” del cinema (ovvero poco mainstream), una cosa che uno come Quentin Quarantino adora e va pazzo. Chissà se il regista de “Le iene”, “Pulp fiction” e “Kill Bill” abbia mai visto questo piccolo capolavoro che ha cambiato il modo di vedere e di intendere il calcio in Italia.