Fenomenologia di “Io speriamo che me la cavo”

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di Simone Balocco

 

Il 1992, per l’Italia, è stato un anno molto duro: dallo scoppio di Tangentopoli e l’arresto di molti politici di spicco, alle dimissioni anticipate dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, dalle stragi di Capaci e via d’Amelio alla stretta dello Stato contro la mafia. Uno degli anni più duri della storia repubblicana.

Ad addolcirlo ci pensò, nel suo piccolo, la nota regista Lina Wertmüller con l’uscita del film “Io speriamo che me la cavo”. Tratto dall’omonimo romanzo di Marcello d’Orta, è stato un successo clamoroso. Il film è la trasposizione cinematografica del libro dell’ex maestro elementare Marcello d’Orta che, nel 1990, decise di fare un libro…sui temi dei suoi alunni della scuola elementare “Tiberio” di Arzano, in Provincia di Napoli. Il libro, molto sui generis, fu un caso editoriale e consisteva in sessanta temi pieni di errori grammaticali, di sintassi e scritti anche con espressioni dialettali. Tutti ovviamente non corretti dall’insegnante. Lo scopo non era prendere in giro dei bambini per il loro modo di scrivere, ma evidenziare i loro sentimenti e cosa vedevano nella loro zona, una delle più difficili dell’hinterland napoletano. La Wertmüller, prima donna della storia del cinema ad essere candidata agli Oscar, decise due anni dopo di dirigere un film tratto liberamente da quell’opera letteraria che fu un vero caso editoriale tanto da vendere circa 2 milioni di copie.

Il libro è stato tradotto in altre lingue, ha venduto oltre un milioni di copie ed è stato portato anche a teatro. Anche se all’inizio non piacque ai napoletani e lo stesso d’Orta ebbe qualche problema, avendo dipinto una Napoli non veritiera. O meglio, era vera ma alla gente del posto non piacque per l’appunto.

Invece di essere ambientato ad Anzano, il film doveva essere girato a Napoli, ma per motivi “organizzativi” e “logistici” la troupe avrebbe dovuto pagare a persone poco raccomandabili una quota per poter girare le scene e si decise di spostare il set a Taranto. La cittadina dove si svolge la pellicola è la fittizia Corzano.

Interpretato da un magistrale Paolo Villaggio, che si tolse di dosso i panni di Fantozzi-Fracchia-Casalotti, il film racconta la storia di un insegnante del Nord, Marco Tullio Sperelli, che per un errore del Ministero della Pubblica istruzione, invece di andare a insegnare in una scuola nei pressi di Genova (Corsano), si trova a lavorare in una scuola elementare della periferia napoletana, la “De Amicis”, di Corzano. Sperelli è un uomo divorziato di mezz’età che vive solo anche al Nord e a Corzano diventa ospite di due anziani signori, Ludovico Mazzullo, zia Esterina e la giovane Cecchina ed ha un vicino di casa pessimista sul Mondo che lo circonda.

La classe a cui è stato assegnato è la IIIB, una classe molto…particolare: tutti i bambini sono della zona, una zona povera e malfamata dove l’assenteismo è elevato, l’abbandono scolastico è all’ordine del giorno ed il dialetto prende il sopravvento sull’italiano.

I bambini sono tutti borderline tra famiglie povere e disagiate e l’ombra della criminalità che aleggia su di loro.

I suoi allievi sono “una quattordicina-sedicina” e la gestione del plesso scolastico non è invidiabile in quanto fatiscente e vecchio. La direttrice non è mai in ufficio perché “tiene da fare”, ha il marito assessore quindi intoccabile e attivo sessualmente tanto da avere sei figli in dieci anni di matrimonio; il bidello Mimì è un uomo molto altezzoso, forse non proprio “pulito”, che esige rispetto per il suo ruolo quasi fosse lui il direttore della scuola, ma non ha voglia di fare il suo lavoro e vende sottobanco ai bambini brioches, carta igienica e gessetti a prezzi molto alti. Nella scuola lavora anche la moglie di Mimì che non fa nulla.

Nella classe IIIB manca tutto: disciplina, rispetto verso la scuola, educazione. Ma sopratutto, mancano i bambini: il primo giorno di scuola, Sperelli esce dalla classe dove sono presenti solo tre alunni ed va a prendere gli assenti uno per uno: c’è chi lavora al bar del padre, c’è chi fa il barbiere, c’è chi fa il meccanico, c’è chi vende sigarette di contrabbando. Tutto con la compiacenza delle istituzioni cittadine, tanto che quando il maestro va a prendere Giuseppe dal barbiere, la persona che stava usufruendo del taglio della barba da parte del bambino era proprio il sindaco, che solo quando sente il maestro parlare di sfruttamento del lavoro minorile diventa tutto d’un pezzo rimproverando il padre per far lavorare il figlio invece di mandarlo a scuola.

Sperelli fa molta fatica ad integrarsi, perché Corzano non è come il paese da dove proveniva e all’inizio non solo non capisce l’idioma (nel film tutti parlano sempre in dialetto napoletano), ma fa anche fatica a capire come funzioni il “sistema”. Ma Sperelli inizia ad “adeguarsi” alla situazione, prendendo lezioni di “napoletano” dal suo affittuario, il signor Mazzullo.

Sperelli è un uomo mite e rispettoso, ma quando conosce l’alunno più difficile, “Aiello Raffaele”, perde le staffe: il bambino si presenta in classe una mattina vestito tutto di pelle, i capelli ingellati indietro, l’orecchino d’oro e l’aria strafottente. Era andato a scuola solo per richiamare all’ordine un suo compagno, Totò, che, essendo un suo “uomo”, non doveva essere in classe ma in strada a commettere qualcosa di illegale con lui. Tra Sperelli e Raffaele scoppiò un alterco tanto che il maestro diede all’alunno uno schiaffo facendolo cadere a terra e facendogli sanguinare il naso. Da allora, tra i due iniziò un rapporto molto complicato.

Sperelli entrò in crisi esistenziale per il gesto compiuto e non volle più andare a scuola e la sera stessa fece domanda di trasferimento al Nord. Il maestro fu rinsavito dalla madre di Raffaele, ritenendolo l’unico in grado che potesse salvarle il figlio visto che la sua famiglia vive in situazione di indigenza ed è vicina alla criminalità. Nonostante la lettera di trasferimento inviata al Ministero, Sperelli decise di tornare a scuola e riprendere la sua attività anche grazie alle parole della signora Aiello.

Il film è un classico ed è anche un cult: un classico perché in questi ventisei anni è stato dato in tv molte volte e trova sempre il piacere del pubblico perché ben fatto (anche se non è un film impegnato); un cult perché è pieno di battute in dialetto e alcune scene sono iconiche ancora oggi. Insomma, un film che racconta storia di vita dura e vissuta, ma con un tocco di ironia e simpatia, avendo come protagonisti dei bambini di otto anni. Il film racconta in maniera romanzata (ma fino ad un certo punto) la vita della Napoli degli anni Ottanta/Novanta: malavita, lavoro minorile, abbandono scolastico, contraddizioni. Piaghe che purtroppo sono presenti ancora oggi.

La scena più bella, e toccante, della pellicola è la sequenza della partenza di Sperelli verso Nord con tutta la classe sulla banchina che lo saluta commuovendosi.

Non è presente al commiato Raffaele, che arriverà poco dopo dall’altra parte del vagone per consegnare di nascosto al suo insegnante il tema sulla parabola preferita. Dopo una forte rivalità, alla fine Raffaele rinsavisce anche perché lo spesso Sperelli, pochi giorni prima, aveva aiutato il bambino a portare la madre colpita da una forte colica renale all’ospedale. Dopo aver cercato di rubare un Ape Car ad un ragazzo amico di Raffaele, nel nosocomio confusionario e con infermieri assenti, Sperelli fece di tutto (anche con modi bruschi) affinché la signora Aiello venisse curata e questo agli occhi del ragazzino fu la scintilla che gli fece capire che il maestro era l’unico che vuole bene a lui e alla sua famiglia. Perché nel film, come nel libro di d’Orta, a vincere è il bene (la scuola) e non il male (la criminalità).

E poi ci sono loro, i bambini: da Rosinella a Nicola, da Totò a Tommasina, da Peppino a Flora a Salvatore (che non sa il suo cognome), fino a Raffaele, il bambino più complicato perché proviene da una famiglia difficile dove il fratello maggiore (di qualche anno più grande di lui) viene addirittura arrestato e portato nel carcere minorile.

Sarà un caso che la scuola del film si chiamasse “de Amicis”, come l’autore del libro per ragazzi “Cuore”, incentrato proprio sulla vita scolastica e con tematiche a volte vicine a quelle del film? Sperelli ad esempio è senza famiglia come il maestro Perboni, Raffaele è paragonabile a Franti e la temporaneità del film è come quella del libro di de Amicis, ovvero un anno scolastico dove si incrociano le vite di studenti tanto diversi tra loro.

Eh già, la scuola. Perché “Io speriamo che me la cavo” è un film sulla scuola ed incentrato su tematiche scolastiche: dai temi alle visite guidate fino a alla risoluzione di problemi, dalla spiegazione delle cose, all’amicizia.

E infatti perché il film si intitola “Io speriamo che me la cavo” e non “Io spero di farcela”? Perché il film è tratto, come detto, dall’opera di d’Orta che raccolse i temi dei suoi piccoli studenti. Temi scritti in un italiano incerto e con tanti errori di grafia e di ortografia. E infatti, non a caso, “Io speriamo che me la cavo” è l’ultima battuta del film quando Sperelli è partito con il treno verso Nord e legge per primo proprio il tema di Raffaele dove in un Mondo finito per colpa dell’Apocalisse si divide in tre porte dove entreranno tre tipi di persona ed ognuna è sempre più piccola: l’inferno, il purgatorio e il paradiso e lui spera di cavarsela. Non appena Sperelli legge “io speriamo che me la cavo”; Raffaele, alla guida di un motorino, lo saluta al primo bivio, lasciando lo spettatore con il dubbio: si redimerà e diventerà studioso o entrerà nel giro della malavita?

Sperelli è cinematograficamente un antesignano: in lui si ricorda l’integerrimo Alberto Colombo (interpretato da Claudio Bisio) di “Benvenuti al Sud”, la storia di un direttore delle Poste spedito a lavorare nel Cilento (a Castellabbate, nel Salernitano) per aver cercato di truffare l’azienda e dove troverà un ambiente diametralmente opposto rispetto a quello brianzolo: alla fine anche lui diventa un castellabatese, distruggendo tutti gli stereotipi che lui aveva verso le persone del Sud e dispiacendosi per il suo ritorno a casa, rispecchiandosi con le parole di Mattia Volpe/Alberto Siani: “quando un forestiero viene al Sud piange due volte, quando arriva e quando parte”. E così è stato Sperelli: da idiosincratico verso il Sud a rimpiangerlo non appena il treno partiva verso casa.

Si può parlare di “fenomeno Io speriamo che me la cavo”? Sì, altrimenti non si spiegherebbe perché venga dato molte volte e perché su YouTube i video degli spezzoni del film sono molto cliccati, commentati e condivisi sui social network.

articolo redatto in collaborazione con Paola Maggiora