Gli scacchi come metafora di vita

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Oggi per www.cittadinovara.com un’intervista attenta e riflessiva ad un giovane debuttante scrittore, Giorgio Devcich, che ci mostrerà una maniera tutta sua d’intendere la vita. Una persona saggia in grado di spaziare in vari campi della conoscenza e con la capacità di meravigliarsi tipica dei bambini e dei filosofi che lo aiuta a guardare il mondo da punti di vista non convenzionali e mai banali.
Giorgio per iniziare ci racconti qualcosa di te?

Io sono quello che si discosta dalle masse. Un poco nerd. Ero otaku prima ancora che esistesse la parola. Sono quello che balla più volentieri alla festa di paese che in discoteca. Mi piace la musica italiana anche gli autori minori. Per contro magari non riconosco un successo internazionale. Ritengo Riccardo Zara uno dei più grandi cantautori italiani e “Ricordi di scuola” di Giovanni Mosca un capolavoro. Ragiono con la mia testa e non faccio qualcosa perché lo fanno gli altri. Ad esempio non ho mai visto Star Wars “nessuno dei tre film” e quando l’ho detto ad una amica mi ha risposto che i film in realtà sono sei.  Mi piace viaggiare e studiare lingue. Ho lavorato in Germania. Per me la differenza è un valore. L’unicità un privilegio. Odio dividere in buoni e cattivi. Non mi piace il gioco del dare le colpe. Sono d’accordo con Umberto Eco a dire che Franti in realtà non era tanto male. Sono curioso e mi soffermo sui dettagli. Sono stato nella Cappella Sistina, non solo in quella di Roma ma anche in quella di Savona. Ho il patentino da cineoperatore e stavo per diventare guida turistica a Cinecittà. Ho insegnato in diversi licei e a Fonopoli. Mi piace vivere la vita in tutte le sue sfaccettature. Sono più simile a Lauda che ad Hunt sono quello che cerca di riunire tutti. Non mi piacciono i gruppetti. Penso che si debba ridere con te e non ridere di te. Non disdegno la carbonara con la panna anche se per molti è una bestemmia. Credo che ogni attimo di vita sia impagabilmente meraviglioso.

Mi hai detto che scrivere un libro per te è sempre stato un sogno, com’è stata la genesi di “Gli scacchi come metafora di vita”?

Fin da piccolo volevo scrivere un libro. Ho sempre avuto tre grandi passioni: la storia, il cinema e i fumetti. Non sono mai stato un grande sportivo e non eccellevo per le mie doti atletiche ma a 12 anni mi scelgono per entrare nella squadra di scacchi della scuola al torneo interscolastico. Fu casuale. In due anni però arrivai ai campionati nazionali. A 14 anni. Fu emozionante. Il club di scacchi era la mia Jolly blu degli 883. Dove ti senti apprezzato. Ci volevamo bene, era un luogo gestito a tinte pastello, come sottofondo c’erano le canzoni di Cristina e dei Bee Hive. E quando hai dei buoni sentimenti li conservi e li ricordi. La gente ricorda i momenti dove ha messo il cuore. In montagna c’era la barzelletta se a tennis fossi il più scarso di tutti o il penultimo. Io intanto a scacchi ero ai nazionali, loro a tennis continuavano a giocare nel campetto delle vacanze.

Negli ultimi tre anni poi mi capitò, sempre casualmente, di riprendere a giocare a scacchi e persino di insegnarli. Non solo in italiano ma anche in tedesco. Ho dovuto imparare tutta la nomenclatura. Mi sono divertito, io sono fondamentalmente un insegnante per formazione. Ho sempre pensato che dietro a ogni cosa esista una magia. In qualsiasi cosa. La sfida è vederla. “L’essenziale è invisibile agli occhi” diceva il Piccolo Principe. Quindi nel lockdown ho pensato che il libro giusto fosse un libro che parlasse di cosa c’è dentro agli scacchi. Cosa rimane alla fine della fiera. Non tanto le mosse. C’è pieno di libri che spiegano le mosse. Volevo parlare di principi e valori. Perché se è vero che si può smettere di giocare a scacchi… Non si smette mai di giocare la vita.

Il titolo potrebbe un po’ spaventare chi di scacchi non ne capisce nulla (come la sottoscritta), però leggendo le due pagine che mi hai inviato ho notato che cosa vuoi intendere nel titolo: è subito spiegata chiaramente la metafora di cui ti avvali. Puoi spiegarci brevemente, per incuriosire i lettori e tranquillizzarli che non serve conoscere il gioco degli scacchi, il tema del tuo libro?

Una volta, tanti anni fa, siamo andati con alcuni amici a giocare a calcetto. Avevamo fatto in modo di mettere nella stessa squadra due ragazzi in contrasto, due rivali, due “nemici”, affinché fossero costretti a collaborare. Il fine ultimo della nostra squadra non era giocare bene ma era tenerci uniti. Imparato quello avremmo giocato bene automaticamente. In ogni caso avremmo appreso la lezione più importante. Nel mio libro non voglio spiegare cosa muovere, voglio soffermarmi su cosa ha importanza, su cosa è bene che rimanga. Non serve essere scacchisti provetti per assimilare concetti di base anche perché probabilmente i Grandi Maestri questi concetti li conoscono già. Bisogna solo avere la meraviglia negli occhi, quello stupore magari tipico della gioventù.

Hai partecipato ai campionati di scacchi di Biella nel 1990, da quanti anni giochi a scacchi e qual è l’insegnamento più importante che hai ricevuto da questo gioco?

Ho giocato “seriamente” dall’autunno del 1988 all’inverno del 1991… Diciamo tre anni scarsi. L’anno clou è stato il 1989, avevo tredici anni. Non so quale sia l’insegnamento più importante. Ce ne sono così tanti. Il tenersi uniti, non abbandonare nessuno, rispettare l’avversario, prendersi la responsabilità delle proprie decisioni, gestire bene i tempi, non avere rimpianti, curare la propria emotività. Forse se proprio dovessi scegliere è il “mettere il re in sicurezza”. Il re rappresenta quanto hai di più prezioso. È ciò che da un senso a tutto. È un po’ la tua spiritualità. L’arrocco rappresenta quindi il momento in cui tu rifiati, in cui curi un interesse, in cui vai in chiesa, in cui prendi in mano le scritture, in cui fai yoga, in cui leggi un libro… Forse niente meglio degli scacchi insegna che puoi attaccare quanto vuoi ma se non tieni sempre un occhio su ciò che hai di più caro alla fine perdi tutto.
Sei una persona capace di cogliere valori importanti anche dove la maggior parte delle persone non ci vede nulla, questa tua capacità di cogliere sfumature impercettibili può nascere dal modo che hai d’intendere la vita e che descrivi nel libro?
Negli anni settanta uscì un bellissimo articolo su un quotidiano (non ricordo quale) che si intitolava “tra un cuore di Puffo e un viaggio in Vespa tracce di una educazione sentimentale”. La capacità di “guardare oltre” la si affina, la si cura, imparando a notare i particolari. La vespa e il villaggio dei Puffi rimandavano ad un universo intimo, dell’anima. Il giro in vespa o le perle di Grande Puffo non si perdono nel nulla ma accendono un qualcosa nella fantasia, nella tua visione dell’amicizia e dello stare insieme e la sfida è proprio curare questo aspetto. C’è un bellissimo libro di Carlo Carretto che si intitola “Il deserto in città” dove si racconta che puoi meditare su tutto. Ogni cosa rimanda ad altro, come la pipa di Magritte o Blow up di Antonioni.
Quando ho letto il titolo del tuo libro mi è scattato un collegamento in testa con la “Novella degli scacchi” di Stefan Zweig. Sono vaghe reminiscenze del terzo anno del liceo che però mi sono bastate per ricordare che Zweig negli scacchi ci vedeva molto di più di un semplice gioco, per lui erano come una specie di universo che si compone con la poesia classica, l’arte, la musica, l’amore per il sapere… conosci quel romanzo? C’è qualche analogia nel vostro modo d’intendere il gioco degli scacchi? Ovviamente i contesti sono molto diversi e anche l’approccio, però a prima vista mi sembra che gli scacchi rappresentano in entrambi i casi un modo “nobile” di concepire la vita. Tu che ne pensi?
C’è un punto d’incontro tra il testo di Zweig e il mio ed è la pressione psicologica. Il rischio che un gioco diventi una ossessione. Per me è un concetto fondamentale. Il confine tra bene e male è sempre molto sottile e dipende sempre da te. Sei più incline a trovare la bellezza se ti mantieni bello dentro. A scacchi alla fine giochi come sei in grado, come sei tu, per come sei fatto dentro. In scacchiera sei solo e sei nudo e alla fine è sempre una sfida con te stesso.
Per finire una piccola nota sull’autore tratta dal libro: Giorgio Devcich è nato a Genova nel 1976. Laureato in Filosofia (1999), in Storia (2001) e in Lettere moderne (2003) presso l’Università di Genova. Ha lavorato come insegnate di materie umanistiche e di Storia del Cinema. Ha partecipato al campionato di scacchi a Biella del 1990.