by Simone Balocco
Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari,
il contenimento dei costi di
funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento
e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”
Questo sarà il quesito che 50,6 milioni di italiani si troveranno di fronte domenica prossima, 4 dicembre, nella scheda elettorale quando saranno chiamati a votare per confermare (o non confermare) la riforma costituzionale “Renzi-Boschi”, dal nome dei suoi due promotori (il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ed il Ministro per le Riforme Costituzionali ed i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi), tramite il referendum costituzionale. Aprendo la scheda, le elettrici e gli elettori (di età compresa dai diciotto anni compiuti in su) si troveranno, sotto al quesito appena esposto, due caselle: “SI” e “NO”. Votando “SI” intenderanno approvare la corposa riforma costituzionale; votando “NO” non lo approveranno. La scheda che ci verrà data al seggio elettorale sarà di colore arancione.
Questa riforma sarà di grande importanza sia costituzionalmente (verranno modificati quarantasette dei 139 articoli che compongono la Carta costituzionale), che politicamente, in quanto l’attuale Primo ministro da due anni (da quando ha sostituito Enrico Letta a Palazzo Chigi) incentra molta della sua politica interna sul tema delle riforme istituzionali. Da quando è entrata in vigore la nostra Carta costituzionale, la “Renzi-Boschi” andrà a modificare ben 47 articoli ed è la maggiore riforma costituzionale nei sessantotto anni di vita della nostra Repubblica.
Essendo un referendum costituzionale, non è richiesto il superamento del quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto: il precedente referendum sulla durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in zone di mare dello scorso 17 aprile era di tipo “abrogativo” e per essere valido si sarebbe dovuto recare alle urne la metà più uno dei votanti, ma quel quorum non fu raggiunto (si recò a votare solo il 31,19% degli aventi diritti al voto). In pratica, tanto per intenderci, se domenica andassero a votare gli oltre 15 milioni di elettori del 17 aprile o anche meno , il voto sarebbe valido ugualmente, visto che in un referendum di questo tipo vincerà la “casella” che prenderà più voti.
Partiamo da alcuni presupposti per cercare di spiegare in maniera comprensibile quello che saremo chiamati a fare, da buoni cittadini, domenica 4 dicembre dalle 7 alle 23.
L’istituto del referendum è tutelato dall’articolo 138 della Costituzione.
Per la terza volta da quando è entrata in vigore la nostra Costituzione (1° gennaio 1948) siamo chiamati a votare per un referendum di tipo costituzionale: le volte precedenti sono stati il 7 ottobre 2001 ed il 25-26 giugno 2006. In quelle due tornate referendarie dovevamo decidere se confermare o meno la modifica del Titolo V parte seconda della Costituzione e confermare o meno sulla riforma dello Stato voluta dall’allora governo Berlusconi III. Nel primo caso vinse il “SI” con un’affluenza di circa il 34% degli elettori (64% “SI”; 34% “NO”). Nel secondo prevalse il “NO” con un’affluenza del 52,5% (38% “SI”; 62% “NO).
Dalla nascita della Repubblica, quello di domenica prossima sarà la XXI tornata referendaria e sarà posto agli elettori il LXXI quesito. Ad oggi, si sono tenuti diciassette referendum abrogativi, un referendum consultivo (di indirizzo) e tre referendum costituzionali, compreso il prossimo.
Il primo referendum indetto in Italia fu quello istituzionale del 2 giugno 1946, quando gli italiani furono chiamati alle urne per votare la nuova forma di Stato dell’Italia, scegliendo tra monarchia o repubblica. Quella fu la prima elezione di carattere nazionale dove furono chiamate a votare per la prima volta anche le donne. Allora l’età minima per esprimere un voto era di 21 anni.
Il primo referendum abrogativo fu quello del 12 e 13 maggio 1974 sull’abrogazione della legge sul divorzio (legge 898/1970, legge Fortuna-Baslini), mentre l’unico ad oggi di carattere consultivo fu contestuale alle elezioni europee del 1989, ovvero sull’assegnare al Parlamento europeo il mandato costituente.
Per la quarta volta in questo 2016, i novaresi saranno chiamati alle urne dopo il referendum abrogativo sulla durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in zone di mare del 17 aprile, dopo il primo turno delle elezioni amministrative del 5 giugno ed il ballottaggio del 19 giugno.
Si voterà nell’unica giornata di domenica 4 dicembre, dalle 7 alle 23. Ricordiamoci di portare con noi all’interno del seggio elettorale un documento di identità valido (carta d’identità, patente di guida, passaporto) e la tessera elettorale. Senza anche solo uno di questi domenica ci sarà impedito di votare.
Se la tessera è completa (avete votato diciotto volte), domenica durante gli orari di voto presso il Comune di Novara (via Rosselli, 1) sarà possibile farsi dare un duplicato, portando con sé quella da sostituire. In caso di smarrimento (o furto) della stessa, dovrete recarsi sempre in Comune, compilare una dichiarazione sostitutiva con allegata fotocopia carta d’identità e vi verrà data una nuova tessera elettorale. In caso di deterioramento, basterà compilare un modulo ad hoc, riconsegnare la precedente deteriorata e immediatamente vi sarà data una nuova tessera elettorale.
Vediamo nel dettaglio quale è stato il percorso istituzionale di questo referendum costituzionale:
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8 aprile 2014: disegno di legge costituzionale presentato dal governo Renzi;
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13 ottobre 2015: il Senato ha approvato in prima lettura il ddl di riforma costituzionale con 178 sì, 17 no e 7 astenuti;
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11 gennaio 2016: la Camera approva il testo deliberato del Senato con 367 sì, 194 no e 5 astenuti;
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20 gennaio 2016: il Senato approva il testo in seconda deliberazione con 180 sì, 112 no e 1 astenuto;
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12 aprile 2016: la Camera dei deputati ha dato il via definitivo con un’altra riapprovazione con 368 votanti, 361 voti favorevoli, 7 contrari, 2 astenuti (essendo una legge costituzionale, era necessario il voto dei 2/3 dei parlamentati, ma essendo stata approvata dal 50%+1 di loro, è stato possibile indire questo referendum). Questo è stato il sesto voto totale, in quanto altre due votazioni sono state fatte prima che venisse eletto il nuovo Presidente della Repubblica nel gennaio 2015 (8 agosto 2014 al Senato, 10 marzo 2015 alla Camera);
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15 aprile 2016: la legge costituzionale è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n° 88;
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20 aprile 2016: i gruppi parlamentari di maggioranza ed opposizione dei due rami del Parlamento hanno depositato presso la Corte di Cassazione le firme necessarie per richiedere un referendum confermativo sulla riforma costituzionale (superati ampiamente i quorum di 126 deputati e 63 senatori, essendo necessarie la firma di 1/5 dei membri dei due rami). In base alla legge costituzione 1/1997, entro tre mesi dalla pubblicazione sulla GU, si sarebbero dovuto raccogliere 500mila firme di cittadini e cinque consigli regionali per la richiesta di indire un referendum;
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25 aprile 2016: inizio raccolta firme del “Comitato per il No”;
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10 maggio 2016: l’Ufficio Centrale per il referendum ha emesso le quattro richieste di referendum parlamentari (uno per ogni ramo del parlamento da parte di gruppi di maggioranza ed opposizione) dichiarando legittimo il quesito referendario; in seguito è stata presentata anche una richiesta di referendum popolare;
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8 agosto 2016: la Corte di Cassazione ha sancito la legittimità sull’indizione di un referendum confermativo;
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26 settembre 2016: il Consiglio dei ministri ha stabilito nel 4 dicembre la data per il referendum costituzionale;
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27 settembre 2016: il Presidente della Repubblica ha firmato il decreto di indizione del referendum popolare confermativo;
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28 settembre 2016: sulla Gazzetta Ufficiale n° 227 è stato pubblicato tale decreto.
Vediamo cosa prevede la riforma nello specifico.
Bicameralismo perfetto quasi superato
La riforma principale vedrà la fine, dopo sessantotto anni, del bicameralismo perfetto. Fino ad oggi il passaggio legislativo vede entrambe le Camere (Camera dei deputati e Senato della Repubblica) impegnate congiuntamente nel votare per l’approvazione di una legge. Nel caso in cui una sola Camera (anche se per pochi voti) non voti a favore, il percorso si interrompeva e il “lavoro” ritornava nelle Commissioni. Anche la fiducia ai governi deve avere il beneplacito (voto di fiducia) di entrambi i rami del parlamento, pena la caduta del governo (a oggi è successo cinque volte).
Il bicameralismo, se passasse la riforma, vedrà nascere l’unicameralismo, dove per le approvazioni delle leggi (ordinarie o costituzionali) basterà il solo”si” della Camera, così come per il voto di fiducia al governo. L’esecutivo verrà rafforzato, godendo del vantaggio di avere il voto di un solo ramo.
Montecitorio diventerebbe il fulcro della politica nazionale, l’organismo preposto alla funzione di indirizzo politico e di controllo del governo e di approvazione del bilancio. Se passasse la riforma, il Governo dovrà rispondere non più al Parlamento, ma alla sola Camera dei deputati. Il Presidente della Camera diventerà la seconda carica dello Stato (scalzando il Presidente del Senato), svolgendo le funzioni di vice- Capo dello Stato nei casi di supplenza, secondo l’articolo 86 della Costituzione.
Di primo acchito si nota che (anche a chi non mastica politica) il percorso legislativo si farebbe più snello e veloce.
Se vincessero i “SI”, prima della resa esecutiva della riforma, qualsiasi legge dovrà passare al Senato entro dieci giorni dal voto per l’esame finale, ma dovrà essere richiesto da 1/3 dei senatori. Il nuovo Senato avrà 30 giorni per deliberare eventuali modifiche, ma poi sarà ancora la Camera dei deputati ad esprimersi. Per la legge di bilancio anche il Senato dovrà avere modo di prenderne visione e apportare modifiche, ma entro quindici giorni e non più trenta giorni come ora. Il nuovo Senato non sarà vincolante, ma dovrà anche lui prendere visione.
Il bicameralismo tornerebbe “perfetto” solo in pochissimi casi: l’approvazione delle future riforme istituzionali, elezione del Presidente della Repubblica e ratifica dei prossimi trattati dell’Unione europea. Con la riforma Renzi-Boschi terminerà il bicameralismo perfetto? Assolutamente no.
La Camera dei deputati invece delibererà lo stato di guerra ed emanerà l’indulto e l’amnistia: il primo a maggioranza assoluta, gli altri due a maggioranza di due terzi dei 630 deputati (a oggi deve esprimersi anche il Senato con la stessa maggioranza).
Non cambieranno né il numero di deputati (che rimarranno 630), né le modalità di voto diretto (suffragio universale diretto da parte degli elettori che hanno compiuto almeno il diciottesimo anno di età) ed indiretto (età non inferiore ai 25 anni per candidarsi). La Camera sarà l’unico ramo del Parlamento soggetto a scioglimento da parte del Presidente della Repubblica.
Rimarranno tali il divieto di vincolo di mandato per ogni parlamentare (nessun parlamentare nelle votazioni deve essere legato al partito, al programma elettorale o agli elettori, in base all’articolo 67 della Costituzione), l’immunità parlamentare (articolo 68): per dare azioni ad arresti, perquisizioni ed intercettazioni, la Camera dei deputati dovrà votare “si” per l’azione a procedere verso il suo membro, a meno che non si tratti di flagranza di reato o sentenza definitiva.
Cambierà anche l’elezione dei giudici costituzionali: ad oggi cinque dei quindici giudici eletti sono nominati dal Parlamento, mentre con la riforma alla Camera spetterà nominarne tre.
Il governo potrà chiedere alla Camera che un provvedimento di rilevanza per l’attuazione del suo programma sia esaminato e votato entro settanta giorni, con un aggiunta di altri quindici.
Il nuovo articolo 55 prevede anche un nuovo comma, la promozione dell’equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza delle liste: le “quote rosa” diventano legge fondamentale dello Stato, quindi obbligatorie.
Debutterà il “voto a data certa”: il nuovo articolo 72 prevede che il governo possa richiedere una via preferenziale per l’approvazione di un disegno di legge “essenziale per l’attuazione del programma di governo”. La Camera vota sulla richiesta del governo entro 5 giorni, e se accoglie la richiesta poi dovrà concludere discussione e votazione entro 70 giorni (rinviabili al massimo di altri quindici). Il “voto a data certa” è escluso per le leggi di competenza del Senato, le leggi in materia elettorale, la ratifica dei trattati internazionali e le leggi di amnistia, indulto e di bilancio.
Le due Camere si riuniranno in seduta comune solo per votare il Presidente della Camera (o metterlo in stato d’accusa) e per scegliere i cosiddetti membri “laici”del CSM: il Parlamento in seduta comune eleggerà otto membri “tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”, come recita l’articolo 104 della Costituzione.
Non sarà legata all’esito del referendum di domenica la questione “legge elettorale”: le prossimo elezioni politiche si terranno con la nuova legge elettorale, la 6 maggio 2015 n. 52 “Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati”, meglio nota come Italicum: un sistema a doppio turno con un sistema proporzionale a doppio turno a correzione maggioritaria, con premio di maggioranza per la lista più votata (55% il premio) e con una soglia di sbarramento al 3% su base nazionale per tutti i partiti, il Paese sarà diviso in 20 circoscrizioni con 100 collegi elettorali, dove saranno eletti dai tre ai nove deputati. Se un partito superasse il 40% dei voti, incasserà direttamente il 55% dei seggi (340, perché dodici deputati saranno eletti con il voto degli italiani all’estero), mentre in caso in cui non venga superata quella soglia, occorrerà un ballottaggio tra i due partiti più votati. Ogni collegio avrà un capolista “bloccato” che entrerà alla Camera se il suo partito prenderà voti. Un capolista potrà presentarsi al massimo in dieci collegi. Ovviamente l’Italicum è stato pensato per la sola Camera dei deputati.
L’Italicum, che vincano o meno i “SI”, sarà la nuova legge elettorale, visto che è in vigore dallo scorso 1° luglio. O meglio, se dovessero vincere i “NO” per la Camera si userebbe l’Italicum mentre per il Senato il cosiddetto Consultellum, una legge elettorale di tipo proporzionale che sostituirebbe in parte il calderoliano Porcellum, usato per le elezioni del 9-10 aprile 2006, 13-14 aprile 2008 e 24-24 febbraio 2013. Si era parlato di indire in un referendum anche per la nuova legge elettorale, ma non ha raggiunto in tre mesi le 500mila firme richieste e quindi non sarà indetto.
Due cose importanti: l’Italia rimarrà una Repubblica parlamentare e il Presidente del Consiglio (ed il Consiglio dei Ministri) non avranno un aumento o una diminuzione dei loro poteri. E non a caso gli articoli 92 e 93 della Costituzione non sono stati toccati dalla riforma: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri” e “Il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. Cambierà l’articolo 94: se passerà la riforma, la fiducia del governo sarà data solo dalla Camera dei deputati e non dalla Camera e dal Senato.
Riforma del Senato della Repubblica
La riforma costituzionale se passasse, vedrà sparire il Senato? Assolutamente no, in quanto il Senato esisterà ancora come continuerà ad esistere la sua sede, Palazzo Madama.
Per una Camera dei deputati che cambia, ecco un Senato che si adegua. Il nuovo Senato delle Regioni (non più “della Repubblica”) avrà una netta modifica: i senatori passeranno dagli attuali 315 a 100.
Oggi, in base all’art. 57 della Costituzione, i senatori sono 315 ed ogni Regione deve esprimerne almeno sette, salvo Molise a Valle d’Aosta che ne hanno diritto a due ed uno ciascuna. Secondo l’attuale Costituzione, per eleggere i 315 senatori l’elettore deve avere più di 25 anni di età, mentre per candidarsi servono quaranta, con la riforma non si voterà più per il Senato ed il minimo di età per candidarsi è quello del consigli regionali, 18 anni: non saranno più votati dal popolo ma nominati a livello territoriale. Saranno nominati 95 senatori ripartiti tra 21 sindaci (un sindaco per ogni regione, salvo il Trentino-Alto Adige che ne nominerà due) e 74 consiglieri regionali, da nominare tra i membri dei vari consigli regionali: 14 della Lombardia, nove della Campania, 8 del Lazio, 7 di Piemonte, Sicilia e Veneto, 6 di Emilia Romagna e Puglia, cinque della Toscana, tre di Calabria e Sardegna e due di Abruzzo, Basilicata, Friuli, Liguria, Marche, Umbria, Molise, Valle d’Aosta e Province autonome di Trento e Bolzano. Se passasse la riforma, verrà anche definita successivamente una legge ordinaria per stabilire come gli stessi consiglieri regionali eleggeranno i “colleghi” che andranno a fare anche i senatori. Nel caso, una Regione (di qualsiasi ordinamento) non avrà meno di due senatori, eletti tra i vari consiglieri regionali in maniera proporzionale in base ai voti ottenuti dai vari partiti nelle elezioni regionali. Il nuovo Senato sarà un’istituzione di secondo grado, votata da persone elette e non direttamente dai cittadini stessi. Si pensa che, in caso di entrata in vigore della riforma, al momento del rinnovo dei consigli regionali, gli elettori si possano trovare due schede elettorali: una per il rinnovo del consiglio in sé e l’altra per eleggere quei consiglieri che andranno a fare anche i senatori. Ma è solo una ipotesi.
Il Senato sarà variabile: la durata del mandato senatoriale non sarà più di cinque anni, ma in base alla durata in carica del mandato elettorale di consigliere o sindaco.
C’è una leggera analogia con il Senato americano: negli States, ogni Stato federale elegge due senatori (50 Stati x 2 senatori = 100 senatori) indipendentemente dalla grandezza dello Stato stesso (in Italia il numero di senatori/consiglieri varia dal numero di abitanti in base di ogni singola Regione secondo l’ultimo censimento). Anche negli USA il rinnovo è parziale: l’8 novembre scorso con l’elezione del nuovo Presidente, gli americani hanno votato il rinnovo biennale della Camera e di 1/3 dei senatori.
A differenza di oggi, il nuovo Senato italiano non sarà soggetto a scioglimento.
Il suo ruolo sarà quello di raccordo tra Stato, regioni e comuni, superando la Conferenza Stato-Regioni, oltre al compito di valutare politiche pubbliche e l’attività delle P.A.
Spariranno i senatori a vita così come li conosciamo: in base all’attuale articolo 59 della Costituzione, ogni Presidente della Repubblica, durante il suo settennato, può nominare motu proprio come senatori a vita “cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, mentre se venisse confermata la riforma, ogni Presidente della Repubblica, durante il suo settennato, nominerà, sempre motu proprio, cinque senatori che rimarranno in carica per tutto il suo periodo di presidenza per poi dimettersi. Gli attuali senatori a vita (non “di diritto”) rimarranno in carica, ma in caso di loro decesso o dimissioni non verranno sostituiti. Quando scadrà il mandato presidenziale, il Capo di Stato diventerà di diritto Presidente emerito (quindi senatore di diritto e a vita), come è sempre stato.
Con questo nuovo Senato, sparirà il concetto di “stipendio”, indennità e diaria in quanto i senatori avranno una sorta di rimborso spese che non darà luogo a nessun vitalizio perché il loro vero stipendio sarà quello di consigliere regionale e/o amministratore locale.
Come per i deputati, anche per i senatori rimarranno invariati il divieto di vincolo di mandato e l’immunità parlamentare. Il nuovo compito del nuovo Senato sarà quello di essere da tramite tra lo Stato centrale e le istanze territoriali, in quanto sarà il loro rappresentante.
Il nuovo Senato potrà presentare proposte di legge come viene fatto ora e tutti i disegni di legge dovranno essere fatti pervenire alla Camera.
Il nuovo Senato continuerà a legiferare per quanto riguarda le leggi di revisione della Costituzione, leggi costituzionali, leggi di attuazione concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, leggi sui referendum popolari, leggi di ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane, nonché le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni.
Il Senato potrà proporre leggi solo se la maggioranza assoluta dei senatori (51 voti) formulasse una proposta di legge alla Camera.
Il Senato potrà esprimere pareri sui progetti di legge approvati dalla Camera e porre modifiche, ma queste devono essere fatte entro 30 giorni dall’approvazione della legge e con il voto di almeno un terzo dei senatori, anche se la Camera avrà la facoltà di non accogliere gli eventuali emendamenti.
Il Senato eleggerà due giudici della Corte costituzionale.
Il ministro Boschi ha detto che in un anno si risparmieranno almeno 490 milioni di euro, di cui maggior parte dalle indennità parlamentari visto i duecentoquindici senatori in meno e almeno 20 milioni con la soppressione del Cnel.
Nuove modalità di elezione del Presidente della Repubblica
Modificando il numero dei senatori, cambierà (ma a livello di numeri) anche il numero dei “grandi elettori” per l’elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, l’attuale Capo dello Stato, fu eletto con i voti di 630 deputati, 315 senatori (e i cinque senatori a vita) e 58 delegati regionali (20 Presidenti di Regione, altri due consiglieri per regione, salvo la Valle d’Aosta che espresse il solo Presidente della Giunta). Se la riforma dovesse passare, gli eredi di Mattarella vedranno il voto solo dei 630 deputati, dei 100 senatori e dei Presidenti emeriti presenti nel Senato (ad oggi Giorgio Napolitano e lo stesso Mattarella) e dei senatori a vita nominati dagli ex Presidenti in passato (a oggi Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia).
In base all’articolo 83 della Costituzione, il Presidente della Repubblica viene eletto a scrutinio segreto con il voto di 2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini (672 voti), 50%+1 degli aventi diritto nei successivi (505); con la riforma invece 2/3 dei parlamentari per i primi tre scrutini, poi 3/5 fino al sesto, mentre dal settimo in avanti serviranno i 3/5 dei votanti.
A parte le modalità di elezione, i requisiti di eleggibilità (cittadino italiano di oltre 50 anni di età compiuti che goda dei diritti civili e politici), le incompatibilità con altri ruoli, la durata del mandato e la scadenza rimangono immutate.
Abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e delle Province
Con la riforma costituzionale “Renzi-Boschi”, sparirà il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e, di conseguenza, verrà abrogato l’art. 99 della Costituzione, “dedicato” a questo.
Il CNEL a oggi è un “organo di rilievo costituzionale” previsto dalla Costituzione stessa. Come questo, lo sono anche il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, il Consiglio Superiore della Magistratura ed il Consiglio Superiore di Difesa.
Ha una funzione consultiva per ciò che riguarda le leggi inerenti economia e lavoro, ma ha anche iniziativa di proporre legge di natura economica senza avere una vera funzione politica.
Se vinceranno i “SI”, entro trenta giorni dall’entrata in vigore della legge costituzionale, verrà nominato un Commissario straordinario che avrà il duplice ruolo di liquidatore e di “ricollocatore” ad altro ufficio delle risorse impegnate nel CNEL.
Dopo sessantotto anni sparirà dalla Costituzione la parola “Province” e la Repubblica italiana sarà composta “dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Rimarranno tali quelle di Trento e Bolzano. Le Province esisteranno da un punto di vista “territoriale”, ma come già in atto da due anni con la “legge Delrio”: i consiglieri provinciali non sono eletti dai cittadini ma dagli amministratori locali della provincia in questione e non percepiscono il gettone di presenza.
Cambiamento di competenza per alcune materie da Regioni a Stato
Con il nuovo Senato spariranno le “competenze concorrenti” tra Stato e Regioni: i settori di competenza saranno specifici di un attore e non di entrambi. E questo riguarda: la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia; le infrastrutture strategiche e le grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e le relative norme di sicurezza; i porti e gli aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale; il commercio con l’estero; l’adozione di disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali, per la sicurezza alimentare e il turismo; la tutela e sicurezza sul lavoro, le politiche attive del lavoro, l’ambiente e l’ecosistema; il sistema nazionale e il coordinamento della protezione civile; il coordinamento dell’uso delle tecnologie digitali nell’amministrazione statale, regionale e locale; il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; l’adozione delle norme sui procedimenti amministrativi per assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale.
Verrà riformato nella sostanza l’articolo 117, quello che divide le competenze legislative tra Stato e Regioni. Non saranno toccate le cinque Regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia e Trentino-Alto Adige).
I nuovi caratteri dello Stato italiano saranno di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza delle funzioni amministrative cui si aggiungono la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, in base ai concetti di efficienza e responsabilità dei singoli amministratori.
Ogni ddl approvato dalla Camera dei deputati sarà poi trasmesso al Senato che avrà dieci giorni massimo per esaminarla. Ma per fare ciò dovrà esserci la richiesta di 1/3 di loro, ovvero almeno 33 senatori/consiglieri.
Dopo questa azione, il Senato delle Regioni avrà altri 30 giorni per deliberare le modifiche del testo. La delibera dovrà avere il voto di almeno 51 senatori, ovvero la maggioranza assoluta.
Il nuovo Senato dovrà anche esprimersi sulle leggi di bilancio dello Stato, ma entro 15 giorni e a maggioranza assoluta. In questo caso, però, l’ultima parola spetterà sempre alla Camera dei deputati.
Nuove modalità per indire un referendum
La riforma, con la vittoria del “SI”, prevederà anche una correzione per quanto concerne le modalità di iniziativa legislativa da parte del popolo italiano.
Ad oggi, per sottoporre una legge a referendum popolare sono necessarie le firme di un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della legge in questione.
Come è stato possibile porre a referendum questa riforma? Semplice, in base all’articolo 138 della Costituzione: il penultimo articolo della Carta prevedere la possibilità di richiedere il referendum costituzionale dopo la seconda votazione da parte delle Camere di una legge di revisione costituzionale o di una legge costituzionale se non avvenuta a maggioranza dei 2/3.
Per chiedere l’attuazione di un referendum abrogativo sono necessarie 500mila firme e per farlo “passare” serve il voto del 50%+1 degli aventi diritto di voto: se passa la riforma, il voto sarà valido se si recherà alle urne la maggioranza assoluta degli elettori, ma se il referendum era stato richiesto da almeno 800mila elettori, il quorum scenderà.
Per quanto riguarda la raccolta firme per proporre leggi di iniziativa popolare a oggi servono 50mila firme, mentre la riforma ne richiederà tre volte di più, 150mila. Verrà anche introdotto il principio di discussione e deliberazione.
Saranno introdotti (ma la disciplina legislativa sarà messa in discussione più avanti, nel caso) i referendum popolari propositivi e di indirizzo come avviene, ad esempio, in Svizzera, un Paese dove il ricorso ai referendum è una prassi istituzionale.
Grazie a questa riforma, aumentano gli strumenti per l’esercizio della democrazia diretta da parte della popolazione, visto che il referendum è considerato l’istituto più elevato della democrazia, anche se si rende più laborioso indirli visto l’aumento delle firme richieste.
“SI” vs “NO”: perché l’uno, perché l’altro
Come ogni dibattito politico, ci sono istanze in favore ed istanze contro.
Stampa, radio, televisione e (diciamolo) i blog si stanno sbizzarrendo nell’approfondire le tematiche che riguardano questo referendum che è epocale nella storia della nostra Repubblica.
Il 5 ottobre è stato presentato un ricorso al TAR del Lazio per far analizzare il quesito che ci troveremo nella scheda elettorale domenica. Il motivo è il fatto che il quesito non è chiaro ed esaustivo su cosa andrebbe a modificare la riforma e lo stesso TAR del Lazio l’x ha bocciato il ricorso presentato.
Il “SI” favorirebbe il superamento del bicameralismo perfetto, ridurrebbe il numero di politici (con rispettivi stipendi, diarie ed indennizzi), snellirebbe il percorso legislativo, i governi godrebbero di una sola fiducia e non di due e si affosserebbe l’idea di trasformare l’Italia in un Paese federale al 100%.
Di questi tempi di anti-politica, ai cittadini italiani interessa più che altro la riduzione dei parlamentari, il che significherebbe un abbassamento dei costi della politica che hanno fatto molto discutere in questi ultimi tempi.
Verranno abolite definitivamente la Province come le conosciamo dal 1859 e sparirà il CNEL, un organismo la cui utilità e notorietà è messa in discussione da molti.
Il fronte del “NO” è più battagliero: i “SI” sono filo-governativi, mentre il “NO” è rappresentato da coloro che non “apprezzano” l’operato di Renzi che, pronti a respingere la riforma costituzionale, vorrebbero indurlo alle dimissioni, portando così allo scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato e ad indire nuove elezioni politiche.
Il comitato per il “NO” spinge per la bocciatura temendo che possano esserci troppi litigi sui poteri tra Regioni e Stato, perché se una volta si voleva decentrare da Roma oggi si cercherebbe di accentrare. Senza contare che il potere del nuovo Senato rappresenterebbe e legittimerebbe la rappresentanza dei territori.
I contrari alla riforma sostengono che un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata due anni fa incostituzionale (la legge Calderoli altresì chiamata Porcellum) dalla Consulta, non ha la legittimità di riformare in una maniera così importante la Costituzione.
Un’altra discussione molto vivace riguarda il fatto del “doppio incarico”: riusciranno a conciliare (e a fare bene) l’incarico di senatori i sindaci e i consiglieri regionali nominati. Molti sostengono che i nominati svolgeranno effettivamente part time il loro compito e visto che sono eletti direttamente dal popolo, si pensa che possano svolgere male una o entrambe le “mansioni”. I senatori non si sposterebbero dalla loro regione o dal loro municipio “per la gloria” (come si dice in gergo), ma chiederanno un rimborso spese non ancora specificato.
La particolarità è che la riforma sancisce che, praticamente, i parlamentari (deputati+senatori/consiglieri) saranno tenuti a partecipare non solo ai lavori in aula ma anche nelle commissioni, rendendo l’assenteismo (un problema che riguarda da sempre le legislature parlamentari) una pratica da eliminare. I pro-riforma sostengono che il ruolo di “senatore delle regioni” è assolutamente compatibile con quello di consigliere regionale in quanto non implica delle limitazioni nell’impegno.
Molti costituzionalisti, ed esperti di questioni giuridiche, sono orientati a votare contro la riforma, con la paura che nonostante questa sia un grande passo in avanti istituzionale, possano verificarsi dei problemi: il “premierato forte”. Già oggi il Presidente del Consiglio grazie ai decreti legge (un atto normativo/legge di carattere provvisorio avente forza di legge, adottato in casi straordinari di necessità e urgenza dal Governo, ma che perde ogni efficacia se non è convertito in legge dal Parlamento entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale) e ai voti di fiducia può governare senza problemi di sorta.
Altri contrari alla riforma affermano che il Senato sarebbe spolpato dei poteri e potrebbe diventare inutile, oltre al fatto che la gente potrebbe allontanarsi ancora di più dalla politica andando a votare per una sola camera (ma questo sarebbe una questione di abitudine, avendo votato per diciassette legislature con due schede di colore diverso, “rosa” per la Camera e “gialla” per il Senato).
La riforma elettorale si dice sia stata scritta male ma non è una garanzia totale di stabilità: sicuramente la riforma elettorale porterà l’Italia ad essere come gli altri Stati democratici, ovvero unicamerale e stabile politicamente.
Molti però sono contrari al fatto che questa riforma invece di facilitare il tutto, renderà il tutto più complesso da capire. E l’esempio più lampante sarà il nuovo articolo 70.
Fino ad oggi, questo prevedeva queste semplici parole: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Se passerà la riforma, il testo diventerà il seguente: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Come si schierano partiti e associazionismo in vista del referendum
Sono in favore del “SI”: Partito democratico, Nuovo Centrodestra, Partito Socialista Italia, Alleanza Liberalpopolare – Autonomie, Scelta Civica, Italia dei Valori, CISL, Confindustria e Coldiretti
Sono in favore del “NO”: Movimento Cinque Stelle, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega Nord, SEL, UDC, Anpi, UIL, Fiom e “minoranza” PD.
Il referendum di domenica è stato fortemente voluto da Matteo Renzi: già da quando si presentò come candidato segretario del Partito democratico il 13 settembre 2012, aveva detto che se avesse vinto la segreteria, uno dei suoi capisaldi sarebbe stata la parola “riforma”. Dal 22 febbraio 2014, quando è diventato Presidente del Consiglio, Renzi ha usato moltissime volte la parola “riforma”.
E almeno fino a due mesi fa il Premier ha messo sempre la faccia, sostenendo che se vincesse il “NO” si dimetterebbe da Presidente del Consiglio, abbandonando la carriera politica per dedicarsi ad altro. Negli ultimi tempi, lo stesso Renzi ha smentito le dimissioni in caso di bocciatura del referendum e si è pensato che lo stesso Primo ministro abbia capito che fondare l’esito del referendum sulla sua persona, spersonalizzandolo e non strumentalizzandolo, era una cosa sbagliata e controproducente.
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, in questi mesi, hanno difeso la loro riforma dagli attacchi dell’opposizione parlamentare, come è giusto che sia in un contesto democratico. Ma i due esponenti democratici non pensavano di avere contro anche una buona fetta degli esponenti dello stesso Pd.
E’ possibile che molti democratici votino “NO” domenica per almeno tre motivi. Il primo è che molti articoli andrebbero cambiati in maniera netta, in particolare quelli riguardanti il nuovo Senato delle Regioni, e vorrebbero un ritocco dell’Italicum, la nuova legge elettorale entrata in vigore lo scorso 1° luglio. La minoranza PD (l’insieme dei parlamentari che non “seguono” le indicazioni del premier/segretario Renzi) vuole scendere a patti con il Premier: tu modificherai l’Italicum, noi voteremo “SI”. La politica, si sa, è anche un gioco di compromessi.
Il secondo è il fatto che il governo abbia scelto l’ultima domenica possibile invece di votare come aveva detto lo stesso Premier ad ottobre. E quindi il silenzio elettorale cadrebbe sabato 3 dicembre: rispetto ad ottobre, ci sono più giorni a disposizione per cercare di convincere più italiani possibili a votare in favore, facendo continuare la campagna elettorale di quasi due mesi. Le polemiche alla fine stanno a zero, perché il 4 dicembre rientra nei termini di legge e quindi è tutto legale.
Il terzo motivo è di carattere “europeo”: domenica saranno chiamati alle urne anche gli elettori austriaci (circa 4,4 milioni di persone) per la ripetizione del turno di ballottaggio fra l’esponente della destra radicale anti-europeista, Norbert Hofer, e l’indipendente di sinistra, Alexander Van der Bellen, vicino ai Verdi. I due candidati sono stati i più votati al primo turno dello scorso 24 aprile ed il ballottaggio è stato vinto da Van der Bellen il 22 maggio, ma alcune irregolarità nel conteggio dei voti (circa 30mila voti di differenza) hanno spinto la Corte costituzionale locale ad invalidare il voto e a rinviarlo di otto mesi.
Cosa unirebbe le due elezioni? Niente, ma se dovesse vincere l’esponente del FPO, si teme che la vittoria del “NO” possa portare ad un’instabilità politica in Italia e l’ascesa, come nel Paese di lingua tedesca e in Europa, di movimenti nazionalisti anti-Ue. Ma la due elezioni sono totalmente diverse, anzi quelle austriache sarebbero da un punto di vista politico più importanti. E per quanto riguarda l’Italia, il futuro di un governo (come tutti i governi) non deve dipendere dall’esito di un referendum, poiché la “conferma” deve arrivargli dalla maggioranza parlamentare.
Una riforma di cui si parla fin degli anni Cinquanta
L’”uomo della strada”, poco attento alle vicissitudini politiche nostrane, potrebbe anche chiedere: ci volevano settant’anni per cambiare (in meglio o in peggio, i punti di vista sono diversi) la Carta costituzionale?
Partiamo da un inciso: l’Assemblea costituente è stata eletta il 2 giugno 1946, in concomitanza con il referendum istituzionale. La stessa Assemblea ha approvato la Costituzione il 22 dicembre 1947, l’allora Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, la firmò il 27 dicembre seguente, diventando esecutiva il 1° gennaio 1948 dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947.
La Costituzione è la principale fonte del nostro ordinamento dalla quale gerarchicamente dipendono tutte le altre. La Costituzione italiana è una costituzione scritta (l’Italia è un Paese di civil law), rigida (è necessario un procedimento parlamentare molto complesso e complicato per la riforma/revisione dei suoi contenuti), lunga (contiene molte specifiche e si compone di 139 articoli e XVIII disposizioni transitorie finali), votata (è votata dal Parlamento, indirettamente dal popolo italiano), compromissoria (a votarla sono stati partiti politici contrapposti che hanno trovato l’amalgama), democratica (nella nostra costituzione si fa riferimento al popolo, ai partiti, libertà sindacale), programmatica (è un programma cui tutti devono sottostare), e laica (non si fa riferimento a nessuna religione particolare ma a tutte). I principi fondamentali sono personalista, pluralista, lavorista, di uguaglianza, solidarista, indivisibilità, autonomista, pacifista ed internazionalista. L’Italia era uscita con le ossa rotte dalla guerra, per di più sconfitta. Era il periodo post Yalta, il Mondo si stava dividendo in buoni e cattivi (a seconda sempre dei diversi punti di vista) e si temette che in Italia avrebbero potuto esserci alcuni “problemi”.
Rispetto ad allora, l’Italia ed il Mondo sono cambiati, ma la nostra Carta non si è mai mossa: sempre lì a vigilare su di noi. Carlo Azeglio Ciampi fece in modo che la Carta diventasse mainstream, rispolverando la festa nazionale del 2 giugno, l’inno di Mameli e facendo imparare e conoscere la Costituzione nelle scuole.
Eppure qualcosa si mosse verso la sua modifica, ma si è dovuto attendere concretamente il 7 ottobre 2001 con il primo referendum costituzionale. Oggetto: la modifica del tanto contestato Titolo V della Costituzione.
Però qualcosa era già stato fatto negli anni poco successivi al 1948. Uno dei primi problemi fu il bicameralismo perfetto ed il fatto che per votare una legge (o dare una fiducia al governo) poteva esserci un percorso molto lungo e deleterio. Nel 1951 si iniziò a parlare di superamento del bicameralismo, mentre qualche tempo prima già si pensava di modificare il Senato.
Un passo in avanti si ebbe nei primi anni Ottanta, soprattutto con il “Craxi I”. Craxi è stato uno dei primi a volere un “premierato forte” e a pensare una revisione costituzionale trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. L’ex leader socialista vide naufragare la sua idea definendola un “inutile abbaiare alla luna”, poiché i socialisti stessi erano divisi al loro interno sull’attuazione della riforma costituzionale in Parlamento tra chi spingeva tra il modello americano e quello francese, senza mai raggiungere una maggioranza per presentare la riforma.
Nel biennio 1983-1985 si riunì la “Commissione parlamentare per le riforme istituzionali”, chiamata “bicamerale Bozzi”, dal nome del suo promotore (il liberale Aldo Bozzi), ma poi non se ne fece nulla.
Nel 1993 si tenne un’altra bicamerale, guidata prima dal democristiano Ciriaco de Mita e poi dalla ex Presidente della Camera, la comunista Nilde Iotti. Anche lì cadde tutto nel vuoto con lo scioglimento delle Camere nel gennaio 1994 e la nascita della Seconda repubblica.
Si pensò ad una svolta con la “bicamerale d’Alema”: grazie all’appoggio dell’opposizione di centrodestra, nel 1997 si era ad un passo da una vera riforma della Costituzione, ma l’allora leader di Forza Italia Silvio Berlusconi mandò tutto a monte insistendo verso alcune modifiche che lui stesso aveva approvato precedentemente.
Il governo Berlusconi III approvò il passaggio dell’Italia da parlamentare a federale con la devolution. Gli elettori nel giugno 2006, con il secondo referendum costituzionale della storia, bocciarono sonoramente (il “SI” vinse solo in Lombardia e Veneto, le due Regioni dove la Lega Nord, promotrice della riforma, aveva più voti). Molti esperti dissero che se fosse passata la devolution, l’Italia sarebbe entrata nella Terza repubblica.
Negli ultimi sei anni il tema delle riforme è tornato con prepotenza sulla scena politica nazionale. In particolare, dal 2013: la nomina del “comitato” dei saggi da parte dell’allora Presidente Napolitano mise in campo un processo molto importante che ha toccato lo zenith lo scorso 15 aprile 2016, quando fu pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la riforma costituzionale (votata dalla Camera l’ultima volta tre giorni prima) che ha portato poi al referendum cui siamo chiamati ad esprimerci domenica prossima.
Care lettrici e cari lettori del nostro blog, con questo articolo non è nostra intenzione spingervi a votare per una o per l’altra “casella”, non è nella nostra natura. Una cosa però vorremmo dirvela: andate a votare domenica. Perché votare è un nostro diritto ed è un nostro dovere civico di buoni cittadini.
Articolo redatto in collaborazione con Paola Maggiora