a cura di Antonio Costa Barbè
la nota proviene da Idea Web ed e’ redatta da ALESSANDRO LONGO
Insulti, offese, sberleffi su Facebook, al nostro capoufficio oall’ex fidanzato/a, ci possono costare cari, molto cari: anche 15 mila euro. E questovale anche se ci siamo preoccupati di non scrivere nome e cognomedell’interessato, lasciandolo anonimo ma (facilmente) riconoscibile. Per ireati di diffamazione commessi su Facebook (e più in generale su Internet), lanostra Giustizia non va per il sottile: «lagiurisprudenza in materia è ormai acclarata. Le offese e gli insulti suFacebook sono considerati diffamazione “aggravata”, alla stregua ditutti gli altri “mezzi di pubblicità ” come la stampa», spiega FulvioSarzana, avvocato specializzato in diritto digitale. Ad oggi, la diffamazioneaggravata comporta da 6 mesi a 3 armi di carcere e una multa non inferiore a 516 euro. Un disegno di legge in discussione inParlamento, però, mira ad abolire il carcere au- mentando la pena pecuniaria,fino a 50 mila euro. Insomma, bisogna stare attenti; anche perché ci si puòritrovare condannati per diffamazione per una grande varietà di casi esituazioni diverse.
Ha fatto scuola la sentenza del Tribunale di Livorno, il primoottobre 2012, condannando una donna per diffamazione a mezzo stampa, per aver scritto sul proprio profilo Facebook frasi offensive contro l’ex datore dilavoro, gestore di un centro estetico. La donna, beneficiando dello sconto dipena derivante dalla scelta del rito abbreviato, è stata condannata a pagare unrisarcimento di 3 mila euro alla persona offesa, oltre alle spese processuali.In quella sentenza sono stati posti alcuni punti fermi, che ci permettono dicapire quando scatta il rischio diffamazione. Affinché il reato di “diffamazione on-line” si realizzi, devono ricorrere insieme tre fattori: ci deve essere l’offesa alla reputazione di unsoggetto determinato o (anche se anonimo) determinabile (la “reputazione” è, perlegge, quella “stima di cui ogni individuo gode, all’interno di unadeterminata società, per le caratteristiche che gli sono proprie”); la comunicazione di tale messaggio deve raggiungere più persone; ci deve essere la volontà di usare specifiche espressioni offensive con la piena consapevolezzadi of- fendere. I giuristi considerano innovativa la sentenza citata perché ha permesso di chiarire due aspetti fino ad allora controversi. È possibileattribuire con certezza la paternità dello scritto o del messaggio all’utentedi un social network?
Se la diffamazione avviene via Internet, vale o no il reato didiffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, co. 3, c.p. (“offesa recatacon qualsiasi altro mezzo di pubblicità”)? Per il primo punto, il giudiceha considerato sufficiente la “prova critica”, cioè la sussistenza diun movente per appurare che quel profilo Facebook corrispondesse a tutti gli effetti all’ex dipendente (in linea d principiola corrispondenza di nome e fotopotrebbero non essere sufficienti, dato che i profili posnno esser fasulli orubati agli interessati.
In genere, per i reati via Internet/sarebbe necessaria un’indagine informatica della Polizia per identificare con certezza gli utenti.
La scelta del giudice di Livorno tagliainvece la testa al toro, semplificando la punibilità dei commenti diffamatorisu Facebook e aumentando la certezza della pena. Per quanto riguarda il secondo punto, il giudice ha stabilito che Facebook rientra nella categoria “mezzodi pubblicità”, poiché è una comunicazione con più persone, di numero e identità indeterminati. Comporta quindi la possibileincontrollata diffusione delle espressioni diffamatorie. Questa impostazione ha trovato definitiva conferma con una recente sentenza della Cassazione, –dell’8 giugno 2015: pubblicare un messaggio su Facebook è diffamazione aggravata, come se fosse a mezzo stampa. Come se lo scrivessimo su un giornale,dunque! «Bisogna ricordare che le norme del nostro codice pe- nale sonorisalenti agli anni 40 del secolo scorso: ovviamente, non si poteva immaginarel’avvento della rete. Per questo motivo la giurisprudenza ritiene più gravi leoffese che avvengono su Internet vista la diffusività del mezzo»: dice Sarzana.
«Questa impostazione è discutibile» ribatte DanieleMinotti, altro avvocato, noto in questo ambito, interpellato ai finidell’inchiesta. «Se l’aggravamento di pena è dovuto alla diffusività delmezzo, non si può dare per scontato che Facebook sia diffusivo come Internet in generale», dice Minotti. Il motivo è che «il social network prevede ambiti circoscritti, non disponibili a chiunque. Internet è una città, Facebook una casa che può avere anche le finestre spalancate, ma è uno spazio ristretto, spesso ad accesso selettivo. Non per tutti, anzi di regola limitato». Ma, nonostante queste perplessita’ l’impostazione consolidata e’quella appena sopra descritta.
SITUAZIONI DI RISCHIO
Nel 2010 c’ è stato uno dei primi esempi forti di diffamazione via Facebook nella nostra giurisprudenza. Una sentenza delTribunale di Monza ha stabilito che “ogni utente di social network che siadestinatario di un messaggio lesivo della propria reputazione, dell’onore e deldecoro, ha diritto al risarcimento del danno morale o non
patrimoniale, ovviamente da porre a carico dell’autore del messaggio medesimo”. Che era successo? Un ragazzo aveva commeritato in modooffensivo alcune fotografie della sua ex, preventivamente pubblicate sulprofilo Facebook. L’aveva denigrata a causa di un suo difetto fisico. Risulta-to: l’ex si risentita lo ha denunciato e ha ottenuto un risarcimento di ben15.000 euro.
Per i sociologi le nuove generazioni subisconouno scollamento culturale tra la facilita’ d’uso del mezzo Facebook e laconsapevolezza delle sue ricadute sociali (e quindi legali). Non c’è insomma, la consapevolezza diffusa chele parole li sono come pietre : Eppure interenet e’ piena di storie di personalicenziate o che non hanno ottenuto un lavoro per colpa di un commento di tropposu facebook
Potremmo pensare di esprimere una liberaopinione, magari con una battuta un po’ fuori luogo, e invece…E capitato nel 2014 alla moglie di un exassessore ai Lavori pubblici, condannata a 600 euro di multa e a pagare unrisarcimento di 7 mila euro per diffamazione. La colpa di un pungente postpubblicato su una pagina Facebook pubblica, la cui moderatrice chiedeva allaGiunta di occuparsi delle piante morenti più che della moschea e delleprostitute. Aveva scritto: “la signora (la moderatrice, ndr.) sembraconoscere molto bene la situazione notturna di viale Piave, presumo siaun’assidua frequentatrice del luogo”. Non possiamo ritenerci al sicuro lasciando anonima la persona di cui scriviamo male: c’è diffamazione anche sequesta resta identificabile da altri elementi di contesto. L’ha stabilito la Cassazione che ha annullato l’assoluzione accordata a un maresciallo dellaGuardia di Finanza. Aveva scritto di essere stato “attualmente defenestrato acausa dell’arrivo di un collega raccomandato e lecc:::”, aggiungendo ancheun’espressione volgare riferita alla moglie di quest’ultimo. Non ha citato ilnome del collega, ma non ci potevano essere dubbi su chi fosse. Infine, ancheil semplice rinvio a giudizio – senza condanna – è un danno economico e una gran seccatura.
E può succedere anche per frasi considerabili “puro diritto dicritica”.
E’ quanto capitato nel 2013 a una giornalista (ilgiudizio è ancora in corso) per aver criticato un cartellone pubblicitario doveuna bambina si trucca e dice “Farò l’estetista, ho sempre avuto le ideechiare”. La giornalista ha commentato: “Trovavo quell’immagine del tutto inappropriata e inquietante, per l’utilizzo a scopi pubblicitari di unabimba ritratta in quel modo, e per la maniera in cui veniva ancora consideratala donna, a dispetto di tutte le battaglie di emancipazione degli ultimidecenni”.
BOCCHE BEN CUCITE?
Come si vede, non basta evitare insulti e frasi lesive dell’onore di qualcuno. Anche criticare in modo argomentato e civilepotrebbe essere pericoloso. Ma a questo punto bisognerebbe chiedersi se leleggi, a strenua difesa della reputazione, non rischino di annullare il ruolo positivo dei social network e di Internet in generale: il loro essere strumenti in grado di potenziare la liberta’ di espressione di tutti.