di Simone Balocco
Anni Settanta, anni di impegno politico. Un decennio caratterizzato da una grave contrazione economica dovuta alla crisi petrolifera e da un periodo di altrettanta crisi della nostra politica. E quando la televisione iniziava ad entrare nelle case degli italiani e iniziavano a nascere le prime radio libere, per strada i giovani scendevano in strada a manifestare il loro dissenso sulla vita di tutti i giorni (lavoro, Nixon, Cile, Grecia dei colonnelli, rivoluzione portoghese, Viet Nam, divorzio, Martin Luther King). Una cosa normale in un Mondo democratico, ma che in molti casi ha portato a scontri tra manifestanti di credo politico opposto e le forze dell’ordine. Tante volte ci è scappato il ferito, troppe volte il morto da entrambe le parti.
Sono stati anni vivi, intensi sotto tanti punti di vista, i Settanta: controcultura, radio libere, protestare contro un Mondo considerato “obsoleto”. E anche lo sport non fu da meno, con il calcio in particolare. In quel decennio il calcio divenne uno sport nazionalpopolare con gli stadi che si riempivano di tifosi di tutte le età sugli spalti a tifare la propria squadra e poi alle ore 17:45 tutti davanti alla tv a vedere “Novantesimo minuto” condotto da Maurizio Barendson e Paolo Valenti dopo aver ascoltato durante il corso del pomeriggio alla radio “Tutto il calcio minuto per minuto” con la voce rassicurante di Roberto Bortoluzzi che dava la linea ai colleghi inviati negli stadi per raccontare la partita nei pochi minuti a loro disposizione.
Ma è sugli spalti che cambia il registro: diventando nazionalpopolare, il calcio attira su di sé tanto interesse. Nascono i primi gruppi organizzati che si collocano nelle curve, da allora diventate la parte più calda e più vicina alla squadra. E negli anni Settanta la politica entrò nelle curve portando la politica al suo interno, in quanto queste iniziarono a schierarsi su posizioni politiche di estrema sinistra e/o estrema destra.
Ed in campo, si faceva politica? Ogni calciatore aveva un proprio credo politico. Esistevano calciatori impegnati che non nascondevano il loro credo e la loro coscienza politica. Uno di questi è stato Paolo Sollier.
I più si domanderanno “Sollier chi?”. Del Paolo Sollier dei giorni nostri non ci sono tante foto, essendo lui per nulla avvezzo al mondo social, mentre di quando giocava qualcosa in rete si trova. E la sua immagine più celebre è quella con indosso la maglia del Perugia, con barba e capello lungo, con il pugno alzato al cielo. Un’immagine eloquente, in quanto il simbolo del pugno sinistro alzato è un gesto dell’ideologia di estrema sinistra.
Paolo Sollier è stato il primo calciatore veramente impegnato politicamente della storia del nostro calcio. Nato a Chiomonte, in Val di Susa, estremo occidente della Provincia di Torino, il 13 gennaio 1948, oggi l’ex “centrocampista rosso” vive a Vercelli, si diverte a correre per la città bicciolana, segue il calcio anche se il calcio non lo appassiona come una volta, non ha social network e probabilmente è ancora di estrema sinistra.
Da giovane si trasferì con la famiglia nel quartiere torinese della Vanchiglietta, zona nord-orientale della città sabauda. Durante le superiori si avvicinò prima al volontariato con le associazioni cattoliche di dissenso (Emmaus e Mani tese) e poi all’impegno politico vero e proprio. Si iscrisse a Scienze politiche (facoltà “rossa”) per andare poi a lavorare alla FIAT nello stabilimento di Mirafiori. In quegli anni il Sollier “ragazzo” viveva le università e le fabbriche, i luoghi dove il Sessantotto e le contestazioni emersero a tinte forti.
Sin da ragazzo Paolo Sollier giocava a calcio (anzi, “al balon” come si dice in Piemonte), faceva il centrocampista e aveva un sogno: diventare un calciatore professionista. Aveva una particolarità: leggeva “Il quotidiano dei lavoratori” ed aveva la tessera del movimento che ispirò quel quotidiano della sinistra extraparlamentare, Avanguardia Operaia (dopo un passaggio a Potere Operaio). Cose non proprio da calciatore, secondo il sentore comune.
Sollier iniziò a giocare nel Vanchiglietta per poi andare nei cuneesi del Cinzano (la squadra nata inizialmente come squadra dopolavoristica per i dipendenti dell’omonima azienda). Si spostò poi a Cossato dove giocò quattro anni contribuendo a portare i biellesi bianco azzurri dalla Serie D alla Serie C. Nel 1973 passò alla Pro Vercelli, una nobile decaduta del nostro calcio, anche lei allora in terza serie nazionale. Con i leoni vercellesi rimase una sola stagione, fino all’estate 1974 quando venne acquistato dal Perugia del presidente d’Attoma, allora squadra militante in Serie B e realtà importante della categoria. In poche stagioni Paolo Sollier era passato dai dilettanti alla Serie A in quanto nella stagione 1974/1975 il centrocampista torinese contribuì a portare il Grifone in massima serie: oltre a mister Ilario Castagner in panchina, con Sollier giocavano talenti come Curi, Frosio, Raffaelli, Vannini, Scarpa e Marchei. Gli umbri erano (e sono) una piazza calda e con una tifoseria politicamente vicina alla sinistra. Sollier ancora prima di giocare nella squadra della città di san Costanzo era già impegnato nella sinistra extraparlamentare e andò a giocare in una delle zone italiane più “rosse” d’Italia, per di più in una squadra con la maglia rossa e con una tifoseria “rossa”. Aveva i capelli lunghi e la barba lunga Paolo Sollier, quasi come i giocatori dell’Olanda del Mondiale del 1974, una squadra alternativa (sotto tanti punti di vista) come alternativo era lui stesso.
In Serie A Paolo Sollier giocò 21 partite senza segnare (anche se contro il Milan a San Siro gli venne annullato un gol il 8 febbraio 1976). Era la stagione 1975/1976, quella del duello Torino-Juventus per la vittoria del tricolore. Tricolore vinto dai granata che dovettero ringraziare proprio il Perugia che, all’ultima giornata, sconfisse la Juventus permettendo al Toro di vincere il suo settimo scudetto, il primo post-1949: Sollier aveva contribuito a sconfiggere la Juventus dei suoi ex “padroni” (gli Agnelli), facendo vincere il titolo alla squadra operaia della città sabauda.
La Serie A aveva più visibilità (allora come oggi) rispetto alla Serie C e ai dilettanti e Sollier si fece notare non solo per l’impegno che metteva in campo, ma anche per il sopraccitato credo politico: lo stesso giocatore veniva ripreso quando entrava in campo, dopo il momenti dei saluti a centrocampo, con il pugno sinistro alzato al cielo, sia che giocava al “Santa Giuliana”, al “Pian di Massiano” o in trasferta. Un gesto forte, apprezzato e non apprezzato. Un gesto che lasciò tutti di stucco: se giocava contro avversari con curve “di sinistra” nessun problema, se giocava contro squadre con curve di “destra” giù insulti, fischi e parole grosse. E anche in campo diverse volte veniva beccato dai giocatori avversari che lo provocavano a parole ma lui non diede mai adito a polemiche sul rettangolo di gioco.
Sollier sapeva di fare un gesto forte, che spaccava e divideva l’opinione pubblica. Ma a lui non interessava: lui ci credeva e questa sua “fede” la esternava con naturalezza, anche perché il pugno alzato lo intendeva un gesto di solidarietà, amicizia ed unione con altre persone. Sollier diventa così il “calciatore impegnato” per antonomasia.
Il centrocampista rimase a Perugia due anni per poi passare, nell’estate 1976, al Rimini, in Serie B, dove rimase tre stagioni e poi fare ancora due anni a Vercelli in Serie D, tre anni a Biella (dove vinse un campionato di Interregionale) chiudendo in Promozione a Cossato, nella cittadina dove aveva iniziato a giocare a calcio seriamente.
Visse a Vercelli (dove tuttora vive) e decise di fare l’allenatore, allenando tra Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia ed un anno ancora a Perugia (nel Pontevecchio). Con i lodigiani del Sancolombano vinse un campionato di Eccellenza, mentre il suo punto più alto fu allenare in Serie C2 l’Oltrepò Stradella. Divenne poi anche allenatore della Nazionale italiana scrittori, la “Osvaldo Soriano FC” (dal nome del celebre scrittore argentino “cantore” del calcio sudamericano). Se come giocatore si tolse diverse soddisfazioni, non lo si può dire per quanto riguarda la carriera da allenatore.
La vita calcistica di Paolo Sollier è sempre stata in provincia, sia in campo che in panchina. Sempre in provincia, quella (calcistica) che non va in tv, ma solo nei giornali del territorio.
Giocò sempre a testa alta e nel ricordo di quel pugno sinistro alzato. Un pugno sinistro alzato che non voleva essere né una provocazione né un gesto politico fine a se stesso, ma solo a dire a sé stesso che era un militante di sinistra che non doveva dimenticarsi mai da dove era partito (come uomo e come calciatore). E questo pensiero è stato spiegato nel suo libro “Calci e sputi e colpi di testa” uscito nel 1976 durante il suo unico anno in massima serie, dove spiegò la militanza in Avanguardia operaia (e poi in Democrazia Proletaria), il suo pensiero e le difficoltà sui campi da calcio per un calciatore impegnato politicamente. Nonché criticare il mondo del tifo, la politica dei prezzi dei biglietti per assistere alle partite, alcuni giornalisti ed alcuni aspetti dalla vita di tutti i giorni.
Sollier è stato un personaggio alternativo e particolare, come le sue battaglie contro l’Assocalciatori, il sindacato dei calciatori, che voleva diventasse un vero sindacato di tutela dei calciatori e non un qualcosa di non sindacale.
Gli anni in cui Sollier ha giocato sono stati gli anni Settanta: i conflitti ideologici che si trasformavano in violenti scontri fisici, l’autocoscienza, l’impegno civile, lo scontro generazionale, la rivoluzione sessuale, LSD, lotte per i diritti, l’immaginazione al potere. Anni di solidarietà e socialità, ma anche anni indimenticabili, sconvolgenti, memorabili e terribili quegli anni Settanta. Anni dove la politica era parte integrante di ogni settore della società.
Paolo Sollier ha vissuto e giocato tutti i Settanta, anni caldi di lotta nelle fabbriche, nelle università, per le strade. Anni ribelli, di protesta, violenza, di novità. Anni in cui il calcio usci dal guscio della “nicchia” e divenne popolare, entrando nelle case degli italiani con le prime trasmissioni sportive, le partite alla radio e gli stadi che divennero centri di aggregazione, tanto che molti videro le loro curve diventare non solo il cuore del tifo ma anche un luogo di nascita degli ultras, con le curve che si identificarono con destra e sinistra. Ma se sugli spalti si iniziò a fare politica, nel rettangolo di gioco i giocatori sembravano lontani da quella logica: tutti avevano (sicuramente) un pensiero politico, ma la quasi totalità di loro non lo manifestò mai. Uno di quelli che ostentavano il proprio credo politico fu però proprio Sollier, uno che usciva dalla fabbrica con il borsone per entrare nello spogliatoio per poi tornare, con lo stesso borsone, il giorno dopo in fabbrica a lavorare per il salario e lottare le sue battaglie. Lui che diceva che i calciatori non potevano non avere idee e lui leggeva e regalava libri ai compagni di squadra quasi come a responsabilizzarli dinnanzi all’opinione pubblica che non legava mai il binomio lettura-informazione ad un calciatore professionista.
Lui, calciatore. Uno stipendio alto, un privilegiato secondo tanti, uno che ha lottato per ciò che credeva non dimenticandosi mai da dove era partito. Lui, partito da Chiomonte, Val di Susa, è diventato un esempio, un punto di riferimento per tutti, anche per chi politicamente era a lui poco affine. Perché Paolo Sollier è stato così: uno che ha avuto una grande storia, uno per nulla mainstream, che non hai sputato nel piatto in cui ha mangiato e che, volente o nolente, ha un percorso rispettabile e da rispettare. A partire da quel pugno alzato che mostrò non solo negli anni di Perugia ma anche quando militava nei dilettanti e che mostrava per coerenza verso lui stesso e verso chi ha vissuto con lui (e come lui) gli anni della Contestazione. Anni di lotta, passione, violenza, amore e innovazione. Anni difficili, belli, intensi, formidabili e che hanno marchiato l’intero Paese. E Sollier cosa ha fatto? Nulla se non un gesto che rappresentava tutto sé stesso ed il suo passato. Perché un gesto come quello che mostrava nei campi non era da ostracizzare, ma rispettare perché rappresentava il cammino di un uomo, umano e non solo politico. E pazienza se qualche tifoseria lo ha contestato apertamente (leggasi i tifosi della Lazio con lo striscione “Sollier boia” contro di lui apparso in Lazio-Perugia del 22 febbraio 1976): non si può piacere a tutti, ma tutti sono da rispettare.
E’ nato a Chiomonte, Val di Susa, terra partigiana e dagli anni Novanta terra No Tav, Paolo Sollier. Terra dove la lotta è nel DNA di quella gente da sempre, sin dai tempi napoleonici. E lui, Paolo Sollier, dalla lotta non si è estraniato mai.
Sollier è sempre stato un giocatore umile ma con una bella storia da raccontare. Storia di calcio e politica, qualcosa che tanti pensano siano rette che non si incontreranno mai.
Il voto è segreto e non sarebbe corretto sbandierarlo ai quattro venti, ma Paolo Sollier lo ha fatto. Ha fatto bene? Ha fatto male? Lui è stato cosi, coerente con sé stesso da sempre. Da quando giocava nei dilettanti piemontesi fino alla Serie A.
E’ stato un idealista, un anticonformista e non un ipocrita, è stato un antidivo. Non è stato un eroe, è stato testardo, onesto, coraggioso.
Questo è stato Paolo Sollier, il calciatore, il compagno, il politicamente impegnato, quello chiamato a volte “Ho Chi Minh”, altre “Mao”, altre “il centrocampista rosso”. Ma sempre sé stesso, nel bene e nel male. E peccato che per scelta di non firmare mai autografi.
immagine in evidenza tratta da www.storiedicalcio.altervista.it