di Simone Balocco
Il 30 ottobre 1974 per gli amanti dello sport, e del pugilato in particolare, non è stato un giorno come un altro perché quel mercoledì di cinquant’anni fa andò in scena un incontro di boxe che cambiò l’hype verso la noble art grazie a due grandi pugili: George Foreman contro Muhammad Alì, in quello che è passato alla storia come “The rumble in the jungle” (“la rissa nella jungla”) disputato all’interno dello stadio “XX maggio” di Kinshasa, allora capitale dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo).
L’incontro, vinto da Muhammad Alì all’ottava ripresa, è entrato nell’immaginario collettivo come l’evento degli eventi, un incontro ancora oggi epico. Come epici sono stati i contendenti: da un parte il giovane campione in carica dei pesi massini, il 25enne George Foreman, lanciato verso una carriera d’oro, e, dall’altra parte, lo sfidante, Muhammad Alì, di sette anni più anziano, in passato già detentore della cintura e considerato uno degli sportivi più famosi ed iconici di sempre.
Quella sfida, attesa da tutto il Mondo, tenne incollati davanti ai televisori e alle radio milioni di appassionati.
Sono passati 50 anni esatti da allora, ma “la rissa nella jungla” è un momento di sport (e di storia) che è bene ricordare. Un evento che, come attesa, ha ricordato quella per una finale di Coppa del Mondo di calcio. C’è tanta epica dietro quell’incontro disputato ad un orario strano (alle ore 4 di mattina locali, per permettere agli americani di sintonizzarsi senza dover fare una levataccia) in un Paese africano che voleva uscire dall’anonimato (e dalla sua passata terribile colonizzazione belga) guidato da un Capo di Stato-dittatore particolare (e temibile) che voleva che il Mondo mettesse gli occhi sul suo Paese e ponendo l’Africa al centro del Mondo sportivo per una sera.
Ma vediamo cosa è stata questa “Rumble in the jungle”, la sua preparazione, la sua attesa, focalizzandoci sul vincitore, quel Muhammad Alì che tornava, a 32 anni, sul tetto del Mondo. Non solo come pugile.
Il campione in carica dei pesi massimi: George Foreman, “Big George”
Nato a Marshall, in Texas, il 10 gennaio 1949, George Foreman al momento della sfida era il campione in carica dei pesi massimi, per antonomasia la categoria boxistica più importante. La sfida per la cintura dei “massimi” era (ed è ancora oggi) una sorta di campionato del Mondo del pugilato: per chi vince la gloria eterna, per chi perde…niente. Perché nel pugilato la gloria spetta solo a chi manda al tappeto l’avversario. E’ uno sport crudele, la boxe.
“Big George” si era fatto conoscere a livello mondiale a 19 anni vincendo la medaglia d’oro dei pesi massimi alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, sconfiggendo il russo Jonas Čepulis. Una vittoria senza storia che pose il pugile texano nell’Olimpo di questo sport. Dopo che un pugile vince la medaglia d’oro (in qualsiasi categoria), passa al professionismo. Un altro tipo di…sport, ma è così: diventando professionisti cambia la percezione del pugilato perché aumentano gli ingaggi e di pari passo anche il livello degli sfidanti che sono più tosti, più veloci e picchiano duro. Ma Foreman, già fenomenale da dilettante, non patì il salto verso il professionismo, anzi sembrava sempre a suo agio. A farne le spese sono stati, ad esempio, due pugili molto forti come Joe Frazier e Ken Norton.
Foreman sconfisse “Smoking Joe” (il celebre soprannome con cui era noto Frazier) a Kingston, in Jamaica, il 22 gennaio 1973 in due riprese facendolo cadere ben sei volte. Frazier non era un pugile banale: già “Fighter of the Year” nel 1967, nel biennio 1970-1971 era diventato campione mondiale battendo Muhammad Alì il 8 marzo 1971 nel celebre incontro ribattezzato “lo scontro del secolo” (“the Fight of the Century”) al Madison Squadre Garden di New York. Nulla poté contro Foreman, davvero di un altro pianeta rispetto a lui.
Dopo Frazier, Foreman sconfisse il portoricano José Roman e Ken Norton: il primo in meno di un minuto (dove cadde a terra tre volte) il 1º settembre 1973 a Tokyo; il secondo il 26 marzo 1974 a Caracas in due riprese. In quei due incontri, Foreman si dimostrò davvero forte, sconfiggendo senza obiezioni i due sfidanti. Soprattutto Norton che, in un incontro per il titolo nazionale NBF disputato a San Diego, il 31 marzo 1973, aveva sconfitto Alì alla dodicesima ripresa, rompendogli la mascella.
Non c’era dubbio: Foreman nel 1974 era il pugile più forte del Mondo. Senza sé e senza ma. E per diventare il più forte pugile della storia c’era ancora uno step da fare. E quello “step” era affrontare quello che, anche se non era più campione da quattro anni, era considerato il più forte pugile della storia: Muhammad Ali.
Si decise quindi di imbastire un incontro tra i due: chi avrebbe vinto, sarebbe diventato davvero il più forte di tutti (e di sempre). Foreman era uno che picchiava, era veloce, aveva grinta, tecnica ed era pronto a diventare “The best boxer ever” e non più solo “Fighter of the Year” come era stato eletto nel 1973, anno in cui davvero si issò al primo posto nel ranking del pugilato mondiale. Ma c’era un problema, non da poco: Foreman era forte, ma non aveva dalla sua il pubblico, che lo riteneva antipatico e troppo forte. E nella boxe aver contro il tifo voleva dire tanto.
Lo sfidante del campione in carica dei pesi massimi: Muhammad Alì, “The Greatest”
Muhammad Alì è considerato uno dei più grandi sportivi di ogni epoca. Il motivo? E’ il più forte pugile di sempre, il più iconico, quello che ha ispirato i pugili dei decenni successi, quello che si è fatto portatore di battaglie etiche, morali e antirazziste per tutta la vita nonché ispiratore di film e personaggi pugilistici cinematografici.
Nato Cassius Marcellus Clay, Muhammad Alì venne al Mondo a Louisville, in Kentucky, il 17 gennaio 1942. Il Mondo conobbe l’allora Cassius Clay quando vinse l’oro olimpico a Roma sconfiggendo il polacco Zbignew Pietrzykowsk e passò poco dopo al professionismo: in quello “spazio”, si dimostrò davvero forte: rapido, preciso, tecnico e volitivo. Ed il 25 febbraio 1964 a 22 anni diventò per la prima volta campione del Mondo, sconfiggendo Sonny Liston al Convention Center di Miami Beach: prima che suonasse il gong per l’inizio del settimo round, Liston si ritirò e Alì vinse. Nessuno prima dell’inizio del match dava il pugile del Kentucky vincente contro il collega dell’Arkansas campione WBC e WBA (ovvero World Boxing Council e World Boxing Association, due delle quattro federazioni interazionali pugilistiche insieme all’International Boxing Federation International Boxing Federation). I due si sfidarono un’altra volta il 25 maggio 1965 a Lewison nel Maine per la sola corona WBC in quanto Muhammad Ali perse la “WBA” perché l’iniziale rivincita contro Liston si sarebbe dovuta tenere a dicembre 1964, ma un intervento chirurgico gli impedì di gareggiare ed il suo titolo decadde.
La vittoria al Convention Center sembrò responsabilizzarlo, facendolo portavoce degli ultimi e delle classi disagiate. Già nel 1961 divenne membro della Nation of Islam, un movimento religioso islamico ortodosso dove vi militava anche Malcom X. Clay addirittura cambiò nome il 27 febbraio 1964, due giorni dopo aver sconfitto Sonny Liston: diventò “Muhammad Ali”, la sua nuova identità da uomo libero abbandonando il suo nome da “schiavo”. Nonostante il cambio di nome, i giornalisti, per provocarlo, continuarono a chiamarlo con il suo primo nome, quasi a sminuirne la scelta.
La carriera (e la vita) di Muhammad Alì presero una piega particolare nel 1967: quell’anno avrebbe dovuto arruolarsi per andare a combattere in Viet Nam. La guerra in Viet Nam, iniziata nel 1955, vide la presenza dell’esercito americano in una guerra (ed in un territorio) molto difficile: tantissimi militari americani morirono combattendo difendendo i colori “a stelle e strisce” in un territorio caldo della Guerra fredda che, alla fine, nel 1975, cadde sotto il controllo comunista. Muhammad Alì’ decise di non arruolarsi e questa decisione scosse l’opinione pubblica: da una parte chi non tollerava che un cittadino americano, anche famoso come lui, non potesse difendere i colori dell’esercito mentre altri (soprattutto non americani) erano dalla sua parte perché faceva bene a rifiutarsi di combattere.
Muhammad Ali è perciò condannato a 5 anni di carcere (che non scontò), gli è ritirato il passaporto, perde la cintura mondiale, perde la licenza boxistica ed è squalificato dal marzo 1967 all’ottobre 1970. Il suo ultimo combattimento lo disputò il 22 marzo 1967 al Madison Square Garden contro il connazionale Zora Folley, vincendo alla settima ripresa per KO. Pur sapendo di aver deluso tanti connazionali, Alì non cambiò idea ed iniziò a girare il Mondo per tenere convegni dove spiegava il suo pensiero e la sua lotta in difesa dei diritti civili dei neri. Il Mondo conobbe meglio il suo pensiero.
In una celebre intervista sulla sua scelta di non volersi arruolare, Muhammad Alì disse di non avere nulla contro i Vietcong (i combattenti filocomunisti del Viet Nam del Nord che lottavano contro il Viet Nam del Sud filooccidentale) perché loro, rispetto agli americani, non lo avevano mai insultato e penalizzato in quanto nero, una cosa che invece accadeva negli USA del tempo alle persone di colore.
Muhammad Alì con la sua decisione anticipò ciò che fecero i duecentometristi americani Tommie Smith e John Carlos l’anno dopo a Città del Messico durante i Giochi olimpici: i due atleti, entrambi afroamericani e medagliati con oro e bronzo, al momento del suono di “The Star-Spangled Banner” (l’inno americano), abbassarono la testa ed alzarono il braccio sinistro al cielo chiuso da un guanto nero. I due atleti, appartenenti ai Black Panthers, scioccarono il Mondo con la loro protesta. Come Alì furono qualificati, ma tra i due gesti, quello di Alì è stato quello che ha avuto peggior effetto tanto che il pugile di Louisville tornò sul ring solo nel 1970.
In quei tre anni di squalifica molti cambiarono opinione su di lui, considerando Alì un paladino degli ultimi e della difesa dei diritti civili, un esempio da seguire perché non si era piegato ed aveva combattuto da solo una “guerra” che sapeva di perdere, ma che affrontò tutto e tutti a testa alta.
Una volta tornato sul ring, Alì decise di riprendersi la carriera e il 26 ottobre 1970 sconfisse ad Atlanta, al Municipal Auditorium, il connazionale Jerry Quarry: vittoria alla terza ripresa per ritiro dell’avversario.
La “prova del nove” per il pugile di Louisville arrivò l’8 marzo 1971 nell’incontro contro Joe Frazier nel primo di tre incontri storici tra i due: Muhammad Ali perse ai punti dopo quindici riprese serrate nel match passato alla storia come “il combattimento del secolo”. Dopo quella sconfitta, Alì vinse i successivi dieci incontri, perdendo l’undicesimo contro Norton alla dodicesima ripresa il 31 marzo 1973 a San Diego, sconfiggendolo poi sei mesi dopo (il 10 settembre 1973) al The Forum di Inglewood in California.
Dopo aver sconfitto l’olandese Rudie Lubbers, Alì sconfisse Frazier, nel secondo dei loro incontro, al Madison Square il 28 gennaio 1974, conquistando il titolo NABF. I due atleti americano ora erano pari nel conteggio delle sfide.
Muhammad Alì sembrava essere tornato il Muhammad Alì di un tempo ed era pronto a nuove sfide. Ed accettò la sfida di Foreman: i due si sarebbero affrontati pochi mesi dopo nell’insolita cornice di Kinshasa. Mai fino ad allora una città africana aveva organizzato un evento pugilistico di quella portata. Di quella grande portata.
Lo Zaire del 1974: la figura di Mobutu e lo sport. La “punizione al contrario” di Joseph Ilunga Mwep
Per ospitare un match di quella portata, era necessaria una grande location. E tanti, tanti soldi.
Ad un certo punto, nell’estate 1974, quando non era ancora certo dove si sarebbe disputato l’incontro, si fece avanti l’allora Presidente dello Zaire, Mobutu Sese Seko, che offrì il suo Paese come location dell’evento nella capitale Kinshasa. Visto che per organizzare un evento di quel tipo servivano, come detto, tanti soldi, Mobuto sbaragliò la concorrenza: indipendentemente da chi avrebbe vinto, il suo Paese avrebbe offerto una borsa di 5 milioni di dollari a ciascuno dei due sfidanti. Nessun altro Paese al Mondo avrebbe mai pareggiato l’offerta di Mobuto e, quindi, si stabilì che il 24 settembre 1974, nel nuovo stadio “XX maggio” (inaugurato nel 1952 con il nome di “Leopoldo II” assumendo il nuovo nome nel 1967), si sarebbe tenuto l’incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi tra il detentore George Foreman e lo sfidante Muhammad Ali.
L’organizzazione fu curata da Don King, un 43enne americano molto abile nell’organizzazione di eventi con forti investimenti miliardari, ma molto controverso.
Organizzare un evento di quel tipo è, senza dubbio, il volano per il Paese africano, noto fino al 1964 con il nome di “Repubblica del Congo” dopo essere stato chiamato “Congo belga” tra il 1908 ed il 1960. E proprio quell’anno, come quasi tutti i Paesi africani, il Congo si staccò dal suo Paese colonizzatore europeo (il Belgio) e diventò indipendente. Il primo Presidente del Consiglio del Congo indipendente è stato Patrice Lumumba, eletto democraticamente, seguito poi da altri otto Presidenti del Consiglio fino al 1965.
Mobutu prese il potere il 25 novembre 1965 con un colpo di stato militare, con gli Usa che non mossero un dito (Mobutu era filoamericano ed il Mondo era nel pieno della Guerra fredda) e guidò il Paese attraverso un regime duro e sanguinario impostato su corruzione, monopartitismo (nacque appositamente l’ultra nazionalista Movimento Popolare Rivoluzionario) e sull’africanizzazione, cancellando tutto ciò che potesse ricordare il Belgio, cambiando il nome alle città e imponendo nuovi nomi a coloro che ricordavano il cristianesimo. Essendo un dittatore senza scrupoli, Mobuto faceva così paura alla sua popolazione che “eseguì” ogni suo dettame. Nel 1971 Mobuto cambiò nome da Joseph-Désiré Mobutu in Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga (traducibile in “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo”), altresì noto come Mobutu Sese Seko.
Mobutu, 44 anni nel 1974, voleva che il suo Paese uscisse dal cono d’ombra in cui era collocato e tutto il Mondo doveva conoscere la forza del suo Paese. E lo sport era (ed è ancora oggi) un buon motivo per far conoscere un Paese al Mondo intero, grazie all’uso della propaganda, la marcia “in più” di ogni dittatura.
Il 1974 è stato l’anno sportivo dello Zaire in quanto quell’anno, per la prima volta (e finora unica), la Nazionale zairese si qualificò alla Coppa del Mondo di calcio. Come se non bastasse, il 14 marzo 1974 la Nazionale dei “leopardi” (che prima di Mobutu era detta dei “leoni”) vinse la sua seconda Coppa d’Africa, bissando il successo del 1968 (quando il Paese che si chiamava “Congo”). Sotto il dominio di Mobutu, tre squadre zairesi vincono la Coppa dei Campioni d’Africa (due volte quello che oggi è il Mazembe ed una volta il Vita Club). Inoltre un leopardo stilizzato apparve al centro della maglia della Nazionale e Mobutu fece tornare a casa tutti i giocatori più forti che militavano all’estero e li fece tesserare nelle squadre locali affinché potessero rendere grande il calcio zairese.
Mobutu pretese tanto dai suoi 22 giocatori e dal Commissario tecnico, lo jugoslavo Blagoja Vidinic, già allenatore del Marocco nel 1970 in Messico e prima Nazionale africana a qualificarsi ad un Mondiale. L’obiettivo era fare bene in Germania Ovest, Paese ospitante della kermesse mondiale: il dittatore promise 45mila dollari a calciatore al ritorno a casa dall’Europa. I giocatori approdarono in Germania federale carichi di entusiasmo. Entusiasmo che si sciolse già dopo le prime due partite del girone che perse contro Scozia e Jugoslavia: Raoul Kidumu Mantantu e compagni incassarono due reti dai britannici e nove dagli jugoslavi, risultando la partita fino ad allora con più scarto di gol in una partita di un Mondiale. Mobutu già dopo la sconfitta contro la Scozia si arrabbiò e fece sapere ai giocatori che non avrebbero ricevuto il premio al ritorno a casa, causando quasi un ammutinamento da parte dei giocatori zairesi nel loro ritiro tedesco.
La terza e ultima partita del girone sarebbe stata contro il Brasile campione del Mondo in carica (ma lontano dall’essere il temibile Brasile di quattro anni prima in Messico). Al minuto 85’ i verde-oro erano avanti 3-0 e si guadagnarono un calcio di punizione: con almeno tre gol di scarto avrebbero superato il girone, mentre lo Zaire era già matematicamente eliminato. Sul pallone, lo specialista Rivelino.
Prima che l’arbitro Rainea fischiò il calcio di punizione, il terzino destro dei “leopardi”, Joseph Mwepu Ilunga, si staccò dalla barriera, corse contro la palla e la calciò lontano, quasi colpendo Rivelino. L’arbitro ammonì Mwepu, ma Rivelino non segnò. La partita terminò 3-0, il Brasile approdò al turno successivo e i “leopardi” tornarono a casa senza gol fatti ma con ben quattordici subiti. La stampa e i tifosi di tutto il Mondo non compresero il gesto del terzino in forza allora al Mazembe, adducendo che non sapesse le regole e rendendo la Nazionale dei “leopardi” lo zimbello del Mondo calcistico.
Se con il calcio era andata male, ora per Mobutu c’era la possibilità di ospitare un evento come il duello tra Foreman e Muhammad Alì, tra il giovane campione del Mondo praticamente imbattibile ed il non più giovane Muhammad Ali ma pur sempre Muhammad Ali.
A pochi mesi dell’assegnazione dell’evento si mosse tutta la macchina organizzatrice: sarebbe stato un incontro epico in un terra che fino a quel momento non aveva mai avuto nulla a che fare con la grande boxe mondiale e con lo sport in generale.
Mobutu non vedeva l’ora di aspettare giù dalla scaletta dell’aeroporto di Kinshasa “Big George” e “The Greatest”.
Il 24 settembre 1974 si combatte. Anzi no. “Zaire’74”, la Woodstock africana.
Martedì 24 settembre, alle ore 3 locali, si sarebbe tenuto l’incontro. Per la prima volta, come detto, Kinshasa avrebbe avuto gli occhi del Mondo addosso. Ma è l’Africa “nera” ad avere l’attenzione del Mondo: l’obiettivo era dimostrare che anche un Paese africano poteva essere il luogo di un qualcosa di epico.
I due contendenti arrivarono in Zaire almeno un mese prima della suono della “campanella”: il clima di quella parte di Africa era molto diverso rispetto agli Usa e, soprattutto, quando avrebbero combattuto sarebbe stata primavera mentre nell’emisfero boreale (dove ci sono gli USA) era autunno. Le temperature ed il tasso di umidità, spesso vicino al 100%, erano due aspetti molto temibili durante il corso della preparazione e dell’incontro.
I due boxeur a Kinshasa non si incontrarono mai prima dell’evento: Foreman alloggiò in città, a pochi minuti dall’impianto che avrebbe ospitato il match e con tutti i confort possibili, mentre Alì alloggiò in una tenuta ad N’Sele, a cinquanta chilometri da Kinshasa.
Non appena si venne a sapere che Muhammad Alì avrebbe alloggiato in quella parte di Zaire, tutti gli abitanti del comprensorio presero bene quella scelta perché avrebbero visto da vicino uno dei principali atleti del Novecento. Muhammad Alì disse di avere scelto la periferia perché li avrebbe visto la vera Africa, la terra dei suoi avi che decenni prima erano stati portati negli USA come schiavi per sottostare ai voleri dell’”uomo bianco”. Per Alì stare nello Zaire era per lui un back to the roots in un territorio sottostato alla dura colonizzazione dei belgi e depredato delle sue ricchezze (i diamanti, soprattutto) a scapito dell’economia del Paese. E si capì che l’incontro pugilistico avrebbe avuto anche una connotazione politica, viste le parole di Muhammad Alì. Foreman invece durante la sua carriera non mostrò mai gesti contro il razzismo e non compì mai gesti clamorosi come quelli di Smith e Carlos, quasi come se la cosa non gli interessasse. In più Foreman compì un grave errore al momento in cui scese dall’aereo: il pugile di Marshall era un amante dei cani tanto che prima di patire per lo Zaire tenne una conferenza a Parigi e al suo fianco aveva il suo cane Dago. Il problema era che Foreman si portò quel cane anche in Zaire, suscitando lo sdegno della popolazione: Dago era un pastore tedesco, la razza di cane che re Leopoldo prediligeva e che introdusse in Congo con lo scopo di usarla contro i dissidenti facendoli sbranare. Foreman è contestato, fischiato e tutto il tifo si spostò, anche per questo, verso Muhammad Ali.
Mobutu, che sapeva fin da subito di aver tra le mani un evento irripetibile per il suo Paese e, in puro stile dittatoriale, fece le cose in grande: dal 22 al 24 settembre 1974 organizzò una tre giorni di musica all’interno del “XX maggio” con oltre trentuno tra artisti e complessi a salire sul palco. L’evento fu pensato dal musicista Hugh Masekela e dal produttore musicale Stewart Levine e tutto è supervisionato da Don King. Tra i protagonisti dell’evento, presero parte artisti di caratura mondiale come contorno all’incontro: da Miriam Makeba, icona della musica afro, a B.B. King, da James Brown a diversi gruppi musicali zairesi ed africani. L’evento (nell’evento) fu battezzato “Zaire ‘74” e fu simile, come percezione, a ciò che avvenne a Woodstock, nei pressi di Bethel, a pochi chilometri di New York, tra il 15 ed il17 agosto 1969, ovvero il concerto musicale più famoso della storia.
I due pugili affrontarono gli allenamenti pre-incontro in maniera diversa: se Foreman si allenava duramente in palestra, Alì si allenava per strada accanto alla popolazione. Con lui c’erano gli allenatori Angelo Dundee, Bundini Brown e lo sparring partner Larry Holmes. Nonostante tutti lo dessero sfavorito contro Foreman (la sua vittoria era data anche 4 a 1), Muhammad Alì poté contare anche sull’amore che gli riversava la popolazione. Durante i suoi allenamenti chiese a tutti di fare il tifo per lui e sostenerlo. I suoi fan gli urlarono un’espressione diventata storica: “Alì, bomaye!” (trad. “Alì, uccidilo!”). La preparazione al match di Muhammad Alì è stata scandita da quelle due parole che non significavano l’uccisione di Foreman nel vero senso della parola, ma uccidere il razzismo, la sottomissione dei neri ai bianchi e permettere che le persone di colore potessero andare a braccetto con i “bianchi” una volta per tutte.
Il 16 settembre avvenne ciò che non si pensava potesse accadere: durante un allenamento, lo sparring partner di Foreman, Bill Mc Murray, “calcò” troppo la foga e colpì più forte del solito il campione del Mondo. Un suo colpo gli causò un brutto taglio sul sopracciglio destro. In poche parole, Foreman non poté combattere. Nessuno aveva previsto questa (possibile) problematica: si disse che l’incontro sarebbe stato da disputarsi in un altro momento, si disse che Foreman voleva tornare a casa a curarsi e magari tornare a Kinshasa in un altro momento. Tutto è però organizzato per il meglio e si prese una decisione: l’incontro si sarebbe disputato il 30 ottobre. “Zaire ‘74” diventò un free entry: mai scelta fu più azzeccata, tanto che a Kinshasa, nei giorni del concerto, si riversarono milioni di persone per assistere al mega concerto.
30 ottobre 1974, si combatte: gli otto round più incredibili del pugilato. La tecnica del “rope-a-dope”
L’incontro, nonostante il rinvio, non cambiò location ma orario: dalle ore 3 locali fissate per il 24 settembre, si passò alle ore 4, un orario in cui gli americani avrebbero assistito in tv o davanti alla radio ad un orario più consono (tra le ore 23 della East Coast e le ore 20 della “West”). Per gli europei una levataccia, perché si andava dalle ore 3 di Lisbona alle ore 4 di Roma e alle 5 di Atene). Ma per assistere a quell’incontro, il gioco valeva la candela.
A commentare l’incontro Bob Sheridam e David Frost a fare le interviste a bordo ring. Arbitro dell’incontro è designato Zack Clayton. L’incontro si sarebbe combattuto sulle quindici riprese. Al “XX maggio” sarebbero stati presenti oltre 100mila persone (di cui oltre duemila a bordo ring). Collegato via tv e radio, il Mondo.
Foreman si era ripreso dall’infortunio e ora poteva combattere: sapeva di avere una grande opportunità per sconfiggere un Muhammad Ali più vecchio di lui e lontano parente (secondo il suo entourage) di quello che picchiava duro anche solo 3-4 anni prima.
Alì entrò sul ring molto tempo prima di Foreman per un semplice motivo: “acclimatarsi” all’ambiente, visto che dei 100mila spettatori, quasi tutti tifavano per lui. A Kinshasa quella notte c’erano 40° ed il 90% di umidità.
Foreman indossava una vestaglia rossa con scarpe bianche, pantaloncini rossi con striscia verticale bianca e cintura blu, ovvero i colori della bandiera americana mentre Muhammad Alì indossò pantaloncini bianchi, senza nessun riferimento (ad esempio) alla bandiera USA. Foreman sembrava più muscolo e tonico dell’avversario, Muhammad Ali invece non distolse mai lo sguardo dall’avversario fino alla “chiama” a centro ring di Clayton.
L’incontro si chiuse all’ottavo round e a vincere fu l’underdog Muhammad Ali. Nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria del pugile di Louisville: Ali ce l’aveva fatta.
Nel primo round, Muhammad Alì picchiò duro l’avversario: Alì voleva chiudere subito la contesa, ma “Big George” si difese e, a partire dal secondo round, iniziò a sferrare colpi potenti all’avversario. Alì incassò, ma non sembrava voler soccombere. Spesso Alì si appoggiava a Foreman colpendolo, ma “Big George” riusciva sempre a liberarsi dell’avversario.
Al quarto round Foreman sembrava però barcollare e al sesto sembrava dare segni di stanchezza. Per un Foreman che faceva tanto ma non sembrava scalfire l’avversario, ecco un Muhammad Alì che non sembrava fare tanto ma che ogni volta che “toccava” l’avversario andava a segno.
All’ottavo round, Alì capì che poteva portare a casa il match e diede all’avversario un gancio sinistro e subito dopo un “diretto” sul viso. Foreman cadde a terra, non riuscì più ad alzarsi e l’arbitro Clayton pose fine alla contesa dopo il canonico countdown 1-10. Dopo dieci anni, Muhammad Alì tornava campione del Mondo. Lo stadio “XX maggio” esplose di gioia: il coro “Alì bomaye!” (urlato per tutto l’incontro) aveva funzionato.
Eppure l’incontro vide Foreman colpire molto Muhammad Alì, tanto da costringere il pugile del Kentucky difendersi tantissimo alle corde. Ma quella era una strategia di Muhammad Alì chiamata “rope-a-dope” (trad. “il cretino alle corde”): far stancare l’avversario e al momento opportuno colpirlo. In più Muhammad Ali, durante l’incontro, usò tantissimo trash talking, una pratica molto diffusa dove un giocatore passa tutto il tempo a provocare l’avversario offendendolo e istigandolo ad una reazione rabbiosa. Se in passato Muhammad Alì era famoso per danzare sul ring e colpire incessantemente l’avversario, ora aveva cambiato strategia diventando più passivo, favorendo all’inizio l’avversario e, al momento giusto, colpirlo.
Per Alì, la vittoria di Kinshasa significava che non era un pugile fortunato, visto che tanti insinuavano che nel 1964 quando sconfisse un Sonny Liston oramai prossimo alla “pensione” e lontano dall’essere l’implacabile pugile di una volta: sconfiggendo Foreman era diventato il pugile più forte di tutti.
Muhammad Alì, molto egocentrico e poco umile, diceva sempre di sé che volava come una farfalla e pungeva come un’ape e così fece contro Foreman. E facendo così era tornato sul trono mondiale dei pesi massimi grazie anche al supporto degli spettatori che vedevano in lui un “fratello” e la loro speranza di alzare la testa dopo secoli di schiavitù e razzismo. Nessuno stava dalla parte di Foreman: era anche lui afroamericano, ma “meno” di Muhammad Alì. Era il nemico del pubblico, era l’avversario che doveva perdere. E durante gli otto round quell’”Alì bouma ye” rimbombò fin fuori dal “XX maggio”.
Foreman non prese di buon grado la sconfitta, accusando lo staff di Alì di aver manomesso le corde, favorendo il loro atleta. Tempo dopo Foreman capì di aver perso non per colpa delle corde, ma perché Muhammad Alì lo aveva sconfitto. Senza sé e senza ma.
Poco dopo la fine dell’incontro, su Kinshasa si abbatté un forte temporale, tipico in quella parte di Mondo colpito dalla stagione delle piogge in quel periodo dell’anno: per l’occasione sopra il ring era stata collocata una sorta di tettoia per impedire ai due atleti di bagnarsi e, soprattutto, evitare che l’incontro potesse essere sospeso o rinviato per impraticabilità. Poco importava: Muhammad Alì aveva vinto la “rumble in the jungle”, la “rissa nella jungla”, ed era entrato definitivamente nell’Olimpo dei più grandi sportivi di sempre.
Gli anni successivi dei due protagonisti
Il post “Rumble in the jungle” fu diverso per i due pugili. Partiamo da Foreman.
“Big George” impiegò diverso tempo per riprendersi dalla mazzata psicologica di aver perso un incontro che non avrebbe voluto perdere, scoprendo poi che alcuni suoi parenti avevano scommesso contro di lui.
Nel 1975 rimase inattivo, dedicando tutto l’anno a sé stesso. Foreman tornò a combattere l’anno successivo affrontando Ron Lyle, un pugile di Dayton molto quotato (che aveva perso un incontro contro Muhammad Ali il 16 maggio 1975 a Las Vegas per il titolo mondiale massimi WBC e WBA) vincendo al quinto round. Poi affrontò Joe Frazier (che sconfisse per KO alla quinta ripresa), Scott Ledoux e Dino Dennis.
Nel 1977 si svolse l’incontro che cambiò la vita di Foreman: a Porto Rico, “Big George” affrontò Jimmy Young sulle dodici riprese. I due arrivarono all’ultimo round, Foreman “picchiò” bene, ma perse ai punti. Era in difficoltà per i colpi subiti dall’avversario, ma più che altro era stanco per la fatica: una volta giunto negli spogliatoi ebbe un attacco di ipertermia e confessò di avere avuto un’esperienza pre-morte. Il pugile texano, nonostante i 28 anni, capì che era giunto il momento di smettere e si avvicinò alla religione e venne nominato “ministro di culto”. Inoltre a Houston aprì un centro per aiutare i bambini e le persone in difficoltà. Un vero cambiamento di vita per l’ex campione olimpico e del Mondo.
Nel 1987, quasi 40enne, George Foreman decise di rimettersi i guantoni e tornare sul ring. Si pose un obiettivo: tornare ad essere campione del Mondo nel giro di tre anni. Ma anche tornare a guadagnare visto che la creazione (ed il mantenimento) del suo centro di volontariato lo portò ad investire la quasi totalità dei soldi guadagnati in carriera.
Dopo una serie di match vinti, nel 1991 per “Big George” arrivò il match verità: il titolo mondiale dei pesi massimi contro Evander Holyfield, allora detentore del titolo. Lo scontro, tenutosi ad Atlantic City, vide vincere Holyfield per decisione unanime, come per “decisione unanime” arrivò anche la sconfitta di Foreman contro Tommy Morris due anni dopo per la cintura vacante dei pesi massimi WBO.
Nel 1994, all’età di 45 anni e 9 mesi, George Foreman tornò ad essere campione mondiale dei “massimi” sconfiggendo Michael Moorer alla decima ripresa: diventò il più vecchio pugile a vincere la cintura mondiale. Senza nulla togliere a Foreman, c’è anche da dire che i tre sfidanti più forti del Mondo non potevano sfidarlo: Mike Tyson era in carcere per una condanna per stupro, Lennox Lewis non stava passando un buon momento personale e Holyfield stava preparando un altro incontro.
Foreman si ritirò definitivamente nel novembre 1997 dopo aver perso un incontro non ufficiale (per nessuna cintura in palio, quindi) contro Shannon Briggs (di quattordici anni più giovane) che lo sconfisse ai punti per decisione unanime. Da allora si diede all’imprenditoria con importanti risultati.
Muhammad Ali, invece, chiuse la carriera nel 1981 a 39 anni, ma dalla “rissa nella giungla” ebbe modo di tornare sul ring e dimostrare, sempre a tutti, che, nonostante l’età, era ancora forte e difficile da affrontare.
Disputò diversi incontri fino a quel 1981, ma l’incontro più famoso (e terribile) fu la “bella” contro Joe Frazier: visto che erano pari (vittoria ai punti per “Smoking Joe” l’8 marzo 1971, vittoria ai punti del “Greatest” il 28 gennaio 1974), c’era da stabilire chi tra i due fosse davvero il più forte. L’incontro poté essere paragonato alla “rumble in the jungle” per hype. L’incontro fu disputato a Manila il 1 ottobre 1975 e a vincere fu Alì per knock out perché l’allenatore di Frazier costrinse “Smoking Joe” a ritirarsi prima della fine della quindicesima ripresa perché l’incontro stava diventando per entrambi un gioco al massacro visto che i due pugili “picchiavano” in maniera letale l’uno contro l’altro. Non a caso l’incontro nella capitale delle Filippine è stato battezzato “Thrilla in Manila”, ovvero “Suspense a Manila”.
Vincendo contro Frazier, Alì capì di essere ancora il più forte di tutti i tempi, ma da quel momento, vista l’età e la lentezza nei movimenti, entrò in una fase di totale declino.
Tra il 1976 ed il 1977 affrontò e vinse con difficoltà contro Jimmy Young, Alfredo Evangelista e Earnie Shavers: tre incontri vinti ai punti, ovvero senza riuscire a mettere knock out gli avversari prima della fine dell’incontro, cosa inusuale per lui.
Tra il 1978 ed il 1981, Ali disputò tre incontri e li perse tutti: il 15 febbraio 1978 contro Leon Spinks (vincendo però titolo la rivincita per il WBA il 15 settembre successivo), il 2 ottobre 1980 contro l’allora sparring partner negli allenamenti di Kinshasa, Larry Holmes (per il Mondiale WBC) e Trevor Berbick. Questo contro il pugile giamaicano è stato il suo ultimo incontro: era l’11 dicembre 1981 e, vista l’epicità, è stato ribattezzato “Drama in Bahama” (trad. “Dramma alle Bahamas”), perché combattuto a Nassau, capitale delle isole Bahamas, e fu la fine pugilistica dell’atleta del Kentucky.
Una volta ballava sul ring, era veloce, rapido, dinamico e quando colpiva metteva alle corde l’avversario ed ora era un pugile lento, prevedibile e invecchiato: Berbick aveva quattordici anni in meno dell’avversario e praticava, quindi, “un altro sport”. E pensare che Holmes era il suo sparring partner durante il soggiorno in Zaire.
Alì chiuse la carriera con 56 vittorie su 61 incontri, di cui 37 per k.o. e perdendo prima del limite una sola volta, ma qualcosa stava cambiando nel suo corpo: nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson.
La sua situazione fisica commosse il Mondo il 9 giugno 1996: Muhammad Ali fu scelto, a sorpresa ed in gran segreto, come ultimo tedoforo della cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Atlanta l’ex pugile prese la fiaccola con il sacro fuoco di Olimpia dalla nuotatrice Janet Evans e si incamminò verso il braciere. Fece fatica, il braccio sinistro gli tremava, il braccio destro reggeva a fatica la torcia, eppure a lui questo non interessò e, con caparbietà e fierezza, si mosse verso il braciere riuscendo ad accenderlo. Il Mondo si commosse nel vedere le condizioni fisiche del più grande pugile di sempre: una volta era l’uomo che metteva tutti k.o., ora era la malattia che aveva messo k.o. quell’uomo.
Muhammad Ali morì a Scottsdale, in Arizona, il 5 giugno 2016 all’età di 74 anni. Al suo funerale tantissime persone e l’allora sindaco di Louisville disse che Muhammad Alì “apparteneva al Mondo, a tutti”. Il Mondo aveva perso un grande atleta ed un grande uomo.
Foreman, che tempo dopo la “rumble in the jungle” si riappacificò con lui diventando suo amico, informato della morte di Muhammad Ali, disse che quel 5 giugno era morta la più grande parte di sé.
Cosa rimane oggi di “the Rumble in the Jungle”
Sono passati cinquant’anni dal match di Kinshasa e tante cose sono cambiate. A partire dallo Zaire: con la morte di Mobutu nel settembre 1997 (a quattro mesi dalla sua caduta con la presa del potere di Laurent-Désiré Kabila e dalla fuga dell’ex dittatore a Rabat, in Marocco), il Paese cambiò il nome in “Repubblica democratica del Congo” e non ha più ospitato eventi sportivi del calibro di Foreman vs Alì. Dopo la “Rumble in the jungle”, l’Africa non organizzò più eventi di caratura mondiale se non il Mondiale di calcio in Sud Africa nel 2010, il primo Mondiale di calcio in terra africana. Il prossimo anno in Ruanda si terranno i Mondiali di ciclismo e nel 2030, in occasione del centenario del Campionato del Mondo di calcio, il Marocco, insieme a Spagna e Portogallo, ospiterà la XXIV edizione dei Mondiali di calcio.
Nel 2002 si scoprì perché in quel Brasile-Zaire Joseph Mwepu Ilunga calciò in quel modo la palla: dopo la sconfitta contro la Jugoslavia, la squadra africana fu informata del fatto che se avesse perso con più di tre gol di scorta l’ultima partita contro il Brasile sarebbe stato meglio non tornasse a casa e i parenti e gli amici dei calciatori sarebbero stati perseguitati. Per questo motivo Mwepu fece quel gesto strano per paura che i brasiliani potessero segnare e mettere nei guai lui, la sua squadra, i suoi parenti ed i suoi amici.
“The rumble in the jungle” rimane comunque un incontro leggendario, il più grande match di pugilato della storia, tanto da rientrare, secondo Channel 4 (un’emittente televisiva pubblica britannica), nella lista dei 100 momenti più grandi della storia dello sport. E’ stato un incontro di boxe che ha fatto non solo la storia di quello sport e dello sport in generale ma ha smosso le coscienze nei confronti degli afroamericani, incarnati da Muhammad Alì che usò il match (e la sua vittoria) per dimostrare che anche i neri ce la facevano nella vita e che dovevano essere rispettati.
Su “The Rumble in the Jungle”, il regista americano Leon Gast girò il documentario “When we were kings” (trad. “Quando eravamo re”), incentrato sul match di Kinshasa con interviste ed immagini d’archivio dove è raccontata la storia del match, focalizzata di più sulla figura di Muhammad Ali. Alla cerimonia di consegna dei Premi Oscar, il 24 marzo 1997, il documentario vinse la statuetta come “Best documentary feature” e a ritirare il premio salirono sul palco proprio i due protagonisti, George Foreman e Muhammad Alì. Il Mondo vide l’allora pugile più forte della storia non riuscire a fare i gradini per colpa dell’avanzare della malattia e fu aiutato a salire sul palco proprio dal suo avversario in Zaire. Una scena commovente che è entrata nel cuore di tutti.
Nel 2018 il noto storyteller italiano, Federico Buffa, ha interpretato una pièce teatrale dedicata all’evento pugilistico per il mondiale dei pesi massimi, “A night in Kinshasa”.
In chiusura, chissà se ha visto la carriera di Alì e la premiazione degli Oscar quel ladro che, nel 1954, rubò la bicicletta all’allora 12enne Cassius Marcell Clay spingendolo, involontariamente, ad iscriversi alla palestra di Joe Martin, poliziotto di professione ed allenatore di boxe per diletto, per diventare un pugile per difendersi dalle avversità della vita.
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