Ti ricordi quando c’erano le boyband?

Condividi sulla tua pagina social

di Simone Balocco

Gli esperti hanno sempre considerato gli anni Novanta una delle decadi più proficue (e prolifiche) della musica, nazionale ed internazionale.

Eredi (musicali) degli anni Ottanta, i Novanta sono ancora oggi ricordati con piacere dagli appassionati come un periodo d’oro, ricco di novità con gruppi e canzoni ancora oggi sulla cresta dell’onda.

I Novanta sono stati gli anni delle sperimentazioni della musica da discoteca, sono stati gli anni dello sdoganamento della musica hard rock e della nascita di diversi suoi sotto generi (uno su tutti, il grunge) e l’affermazione della musica rap anche alle nostre latitudini, fino a quel momento solamente underground. E non a caso in giro per il nostro Paese (prima della pandemia del Covid-19) sono state tante le serate a tema nei locali a tema sugli anni Novanta. E come ogni decade, è la musica pop ad aver fatto da traino. Del resto, si sa, “pop” è l’abbreviazione di popular, popolare, un genere che piace sempre e che accontenta tutti.

Gli anni Novanta sono stati un grande decennio pop, italiano e straniero. E come sempre, Inghilterra e Stati Uniti d’America hanno lanciato la volata, grazie al fatto che si apprezza sempre di più la musica straniera rispetto a quella nostrana (anche se tanti non sanno il significato dei testi e non sanno le parole delle canzoni).

I Nineties sono stati l’onda lunga musicale degli Eighties, epoca ancora oggi ricordata così tanto che molti vorrebbero addormentarsi e svegliarsi il giorno dopo in quel periodo. Un sacco di generi diversi e alternativi tra loro con i loro fan in competizione su quale genere fosse meglio dell’altro. Ed ecco che i Novanta sono stati gli anni dell’hard rock (Metallica, Guns n’ Roses, Bon Jovi, Aerosmith, AC/DC e Red Hot Chili Peppers solo per far qualche nome), del grunge (i Nirvana e la scena di Seattle), degli inglesi Britpop (Oasis contro Blur, in particolare) e trip pop (Portishead e Massive Attack), dell’elettronica (Prodigy e Chemical Brothers), dell’indie e dell’alternative.

Gli anni Novanta sono però ricordati ancora oggi per essere stati gli anni dell’affermazione (e del mito) di un genere che ha marchiato a fuoco proprio quel decennio. Un genere pop che, se ci pensiamo, oggi fa un po’ sorridere, ma che allora sconvolse i giovani (e le giovani, in particolar modo) con la nascita di gruppi musicali come le boyband.

“Boyband” sta, ovviamente per “band musicale composta esclusivamente da ragazzi” e quasi in parallelo con loro si sono sviluppati (sempre in Gran Bretagna e Stati uniti) i loro alter ego, le girlband (che meritano un discorso a parte).

Si potrebbe dire che sin dagli anni Sessanta esistono band musicali composte da soli ragazzi: dai Beach boys ai Turtles, dai Rolling Stones a tutte le band rock, fino ai Jackson 5 e i Menudo (trampolino di lancio per Michael Jackson e Ricky Martin).

Eppure esiste una differenza enorme tra i gruppi precedenti elencati e le boyband: le boyband sono state costruite ad arte per il momento. Stop. Zero talento musicale, zero prove in salette improvvisate, zero concerti iniziali in locali sgangherati. Non che le boyband siano meglio (o peggio) di questi gruppi musicali, ma sono state un’altra cosa.

La prima boyband con tutti i crismi del caso si forma nel 1984 nel Massachussets ed era composta da Danny Wood, Joey McIntyre, Donnie Wahlbert ed i fratelli Jonathan e Jordan Knight: i New Kids on the Block.

Questo gruppo, attivo tra il 1984 ed il 1994, pubblicò quattro dischi e vendette diversi milioni di copie. Non erano eccezionali, ma avevano una particolarità: piacevano alle teenagers. E quando si dice “piacere alle teenagers”, si intende che queste ragazze (dai 12 ai 20 anni) avevano i loro poster in camera, avevano tutti i loro dischi, avevano il diario pieno di foto e dediche d’amore verso questi ragazzi impossibili e sognavano di poterli incontrare un giorno e sposare. Come voleva fare nel 1986 Clizia Gurrado con Simon Le Bon, leader dei Duran Duran, gruppo solo maschile ma non inquadrabile nel filone “boyband” (come gli Spandau Ballett, loro rivali del tempo), I New Kids on the Block hanno riempito palazzetti e stadi, fatto salire l’audience dei programmi che li hanno ospitati, cantavano in play back (come tutti) nelle trasmissioni e facevano salire le palpitazioni a tutte.

Nei primissimi anni Novanta gli States, da sempre forieri di musica, hanno visto nascere i Boyz II Men, gruppo pop con contaminazioni di black music e rhythm and blues, e tanti altri gruppi simili, ma niente rispetto a quello che successe nel 1990 a Liverpool: nacquero i Take That e la musica pop, da allora, ha preso un’altra piega.

Primo baluardo delle boyband, i Take That (nati come Kick It) erano un gruppo di cinque ragazzi che non sapevano suonare strumenti musicali (o che almeno loro sul palco non suonavano strumenti), ma erano belli (o comunque molto piacenti) e di età compresa tra i 16 ed i 22 anni. I membri erano Gary Barlow, Robert “Robbie” Williams, Mark Owen, Jason Orange e Howard Donald.

In sei anni, i Take That vendettero milioni di dischi e lanciarono hits come “Back for good”, “Sure”, “Babe”, “Everything change”, “Pray” e “Sure”. I loro concerti erano sold out non appena venivano messi in vendita i biglietti, con file di ragazze davanti ai negozi per accaparrarsi il cimelio per poi stare ore e ore davanti ai palazzetti (o agli stadi) per entrare per prime ed essere in prima fila al concerto e vedere da vicino i loro idoli.

In sé, i Take That non erano nulla di eccezionale, se non che ballavano bene. Musicalmente non erano all’avanguardia: le canzoni erano prettamente cantate (e scritte) dal leader del gruppo, Gary Barlow, mentre gli altri avevano voce nei ritornelli. E soprattutto ballavano. Anche molto bene, colmando la lacuna del bel canto (a parte “Robbie” Williams che anche migliore di Barlow).

Il progetto Take That terminò nel 1996 quando “Robbie” Williams decise di lasciare la band e diventare un cantante solista. La notizia colse di sorpresa le fan che, se proprio non si strapparono i capelli, urlarono dalla disperazione e piansero fiumi di lacrime all’idea che il bellissimo Robbie non avrebbe più solcato i palchi con i Take That.

Il gruppo non si sciolse e si riformò nel 2010 con il ritorno di Williams, pubblicò un altro loro disco, Williams uscì ancora l’anno dopo e nel 2014 lo seguì anche Orange. Come del resto avevano fatto i New Kids on the Block: reunion-pausa-reunion-pausa.

Ma il dado era tratto: i Take That avevano tracciato il solco e dopo di loro nacquero molti altri gruppi: dagli East 17 ai 911, dagli Ultra ai Five, dai Westlife agli A1. Nacquero come funghi boyband più o meno famose (soprattutto dentro i loro confini nazionali) che vendettero album e sfornarono hits.

Ma se l’Inghilterra è stata la culla, gli Stati uniti sono diventati lo zenith delle boyband e la band più famosa è un gruppo nato (ovviamente) a tavolino, attivo dal 1993 ed è un cult nel mondo boyband. La loro base era Orlando, in Florida, e loro sono Howie Dorough, Brian Littrell, Nick Carter, AJ McLean e Kevin Richardson. Stiamo parlando dei Backstreet’s Boys.

I Backstreet’s Boys furono una miglioria rispetto ai Take That: anche loro non sapevano suonare strumenti, ma sapevano ballare ed il loro stile (non musicale) fece epoca. Erano cinque ragazzi ognuno con una propria peculiarità: il bravo ragazzo (Brian), il bello (Nick), il selvaggio (AJ), il più maturo (Kevin) e quello che piace alle mamme (Howie). Tutto come i Take That e tutte le boyband, ma con qualcosa di più: la globalità, perché a differenza dei Take That, i Backstreet’s Boys arrivarono a tutti gli angoli del pianeta ancora di più rispetto ai cinque di Liverpool e negli Usa incassarono miliardi di dollari da dischi, comparsate, concerti, merchandising ed interviste. Tutto con fan scatenate e piangenti al seguito.

Negli Usa, considerati il luogo dove se si sfonda lì si ha successo ovunque, mancava una “situazione” come i Backstreet’s Boys: fan in delirio, dischi (allora si vendevano le cassette e i cd) venduti in pochissime ore e file per accaparrarseli, ospitate televisive con fan il delirio ed in lacrime fuori dai centri di produzione. Merchandising venduto a peso d’oro e concerti sold out.

I Backstreet’s Boys sono però stati l’emblema della costruzione a tavolino: nati nel 1993 per volere di Lou Pearlman, il loro primo singolo è stato “We’ve got it goin’ on”, facente parte dell’album Backstreet Boys. Fu un successo esagerato, quasi inaspettato.

Il successo non tardò ad arrivare anche in Italia e nacque una sorta di “battle band”: se nel 1995 la sfida era tra le inglesi Oasis e Blur, la sfida ora era tra gli inglesi Take That e gli americani Backstreet’s Boys.

Chi vinse? I Backstreet’s Boys, ma solo ai punti anche perché tutti i componenti cantavano, mentre nei Take That a cantare era quasi esclusivamente Barlow, lasciando poco spazio agli altri.

Take That contro Backstreet’s Boys, Backstreet’s Boys contro Take That. E’ finita così? No la sfida continuò e le altre boyband (inglesi o americane) scimmiottavano le due band precedenti, ma ognuna aveva proprie caratteristiche che svanirono non appena il filone entrò, ovviamente, in crisi.

L’ultima boyband conosciuta come tale arrivava dall’Inghilterra e a formarla erano Antony Costa, Lee Ryan. Simone Webbe e Duncan James: i Blue. Con questo gruppo, molto bravo artisticamente (anche se ancora legato al concetto balletto-voci suadenti) e capace di far due cover con due mostri sacri della musica come Elton John e Stevie Wonder. I Blue erano bravi, ma sono venuti fuori troppo tardi quando l’onda si stava esaurendo nonostante le lacrime e i sold out ai concerti. Ebbero comunque successo, ma mai come le boyband nate nei Novanta.

Dopo tre dischi e singoli di successo (tra cui la versione italiana di “Breathe easy”, diventata italianamente “A chi mi dice”), la band si sciolse e i componenti intrapresero una carriera solista, un classico di chi ha fatto parte delle boyband. Solo che in pochi possono dire che dopo essersi messi in proprio hanno avuto successo: tra questi, Robbie Williams, Justin Timberlake e Ronan Keating sono i cantanti con più talento e successo (e questo lo si vedeva già quando si esibivano) provenienti dalle boyband.

Gli anni ’10 di questo XXI secolo hanno dato i natali musicali all’ultima boyband di riferimento, gli One direction, formati da Louis Tomlinson, Harry Styles, Niall Horan e Liam Payne. Nata durante la versione inglese del talent show “X Factor” hanno pubblicato cinque dischi, nel 2015 anche loro hanno visto l’uscita di un membro (Zayn Malik) e a oggi sono fermi, ma non sciolti. Anche in questo caso, la loro creazione è stata a tavolino.

Le boyband non sono nate nelle cantine o tra i banchi di scuola: le boyband sono state fatte nascere. Da chi? Da manager che hanno fiutato l’odore del successo e hanno dato il via ad un vero e proprio progetto: fin che si vende, si fa in modo di vendere un disco in più e quando si capisce che non si venderà più, questi “progetti” si sciolgono e i più bravi continuano la carriera, mentre altri intraprendono altre strade e torneranno in auge solo in caso di reunion.

Il mentore dei Backstreet Boys (forse la band più creata a tavolino di tutte) è stato Lou Pearlman che li ha creati nel 1993 e poi tre anni dopo ha dato il via al progetto Nsync. Pearlman è stato considerato un avido imprenditore musicale sfruttatore dei suoi clienti e tempo dopo fu accusato di violenze, riciclaggio, false dichiarazioni e ha visto fallire la sua casa discografica. La fine ingloriosa di un uomo (scomparso qualche anno fa) che ha cavalcato l’onda commerciale delle boyband e che ha sfruttato tutto lo sfruttabile da questa situazione (boyband comprese).

A livello di canzoni, sono tante le canzoni delle boyband ed è difficile trovare la più bella e la più intensa. Una delle più acclamate è stata “I want it that way” dei Backstreet’s Boys che ha vinto diversi dischi d’oro, dischi d’argento e dischi di platino in tantissime Nazioni ad ogni capo del Mondo. Perché le boyband non sono state un fenomeno continentale, ma globale.

Le boyband sono un ricordo di cimeli e big reunion, mentre in Estremo oriente queste vanno ancora per la maggiore grazie ad un fenomeno chiamato K-pop (Korean-pop) dove il gruppo top sono i BTS. Cosa caratterizza questo gruppo rispetto alle boyband anni Novanta? Oltre al particolare look, il fatto che sono in sette ad esibirsi, hanno capacità musicali in quanto le canzone le scrivono insieme e suonano strumentti, anche se i temi delle canzoni sono alcune volte “impegnati” rispetto ai gruppi anglo-americani del passato.

Cosa rimane oggi delle boyband? La gioventù e i bei tempi che furono. E poi gli amori platonici verso questi cantanti senza arte né parte, ma che ebbero la fortuna di essere belli (molti lo sono ancora oggi a tanti anni di distanza), un po’ spigliati e un po’ capaci di ballare. Cose non da poco, ma la vera musica è stata, è e sarà sempre altro, ma questi gruppi hanno caratterizzato la vita (ma anche le emozioni) di chi è nato tra i Settanta e gli Ottanta. Anni di scritte sui muri, sui poster, sui diari, lacrime versate ai concerti e da parte di chi non è potuto andare ai concerti.

I temi delle canzoni erano amori infranti, amici, divertimento ma temi tutti scanzonati e disimpegnati, semplici, con ritmi accattivanti melodie orecchiabili. Insomma, vera pop music.

Parrà uno sgarbo, ma l’influenza che hanno avuto gruppi come Take That, Backstreet’s Boys, Boyzone, Nsync e Westlife è pari a quella di complessi rock e band che fanno musica da trent’anni e hanno cambiato la musica.

Le boyband hanno avuto una forte influenza sui costumi e sui gusti delle ragazzine negli anni Novanta e ora non avrebbero senso e non avrebbero successo: oggi le boyband sono sostituite dai talent e da Youtube e le figlie delle allora teenagers rabbrividirebbero nel vedere cosa piaceva alle loro madri.

Le boyband sono state figlie del loro tempo. Però, possiamo dirlo: che tempi sono stati quelli!?!?!

 

immagini in evidenza tratta da www.105.net