Un calcio al razzismo: Akeem Omolade e altre vicende deplorevoli del nostro calcio

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di Simone Balocco

La stagione 2003/2004 vide il Novara Calcio chiudere in campionato al dodicesimo posto. Era Serie C1, categoria che aveva visto gli azzurri tornare a giocarvi dopo sette stagioni. Tra l’8 giugno 1997 (giorno del play out Pistoiese-Novara, ultima partita giocata dagli azzurri in Serie C1) ed il 15 giugno 2003 (giorno del pareggio-promozione contro il Sud Tirol nei play off di Serie C2), il Novara aveva disputato quattro play out (di cui tre consecutivi tra il 1999 ed il 2001), un play off promozione in Serie C1 e la paura ogni estate di non potersi iscrivere al campionato.

Alla guida societaria della squadra c’era da quell’estate Pippo Resta che aveva preso il posto dei fratelli Mastagni, in carica nei due anni precedenti e che avevano sistemato le casse e l’andazzo della società. Luciano Foschi fu confermato allenatore, Sergio Borgo rimase direttore sportivo (e santone), furono acquistati Lorenzini dalla Pro Vercelli, Cioffi dal Taranto e Serao dalla Reggiana ed erano rimasti in azzurro beniamini come Polenghi, Colombini, Braiati, Bigatti e Brizzi. Il nuovo attaccante era Lorenzo Pinamonte, 25enne proveniente dall’Arezzo e con alle spalle esperienze inglesi con le maglie di Bristol City, Carlisle, Brighton, Brentford e Leyton Orient.

Il reparto attaccanti vedeva oltre al “Pina” anche Palombo, Carlet, Damiano, Pau ed un ragazzo nigeriano di 20 anni, Akeem Omolade. Classe 1983, questo giocatore era giunto a Novara in prestito dal Torino con il quale aveva debuttato in Serie A contro l’Inter il 2 febbraio 2003. In totale in massima serie il giocatore aveva disputato cinque partite: i granata contavano molto su di lui, ma decisero di darlo in prestito. Destinazione per lui: il Novara neopromosso in Serie C1. Insomma una bella “palestra” dove farsi le ossa in attesa di tornare alla casa-madre.

Nella stagione novarese, Akeem Omolade disputò 18 partite (di cui sette da titolare) segnando quattro reti (Prato, doppietta all’Arezzo e Pro Patria). Dopo quella sola stagione, Omolade tornò al Torino. Non rimase sotto la Mole e negli anni successivi giocò a Biella, Reggio Emilia, Gela, Barletta e Vibo Valentia.

Oggi Omolade ha 39 anni, gioca ancora a calcio nelle serie calcistiche provinciali siciliane e saranno in pochi a Novara a ricordarsi di lui avendo giocato quasi 20 anni fa lasciando un ricordo lontano. Ma la figura di Omolade è molto importante in Italia perché il giocatore ha vissuto una brutta questione di razzismo.

Riavvolgiamo il nastro alla stagione 2000/2001 quando Akeem Omolade, 17 anni, lasciò il suo Paese e si spostò a giocare in Italia venendo tesserato dal Treviso. Come tanti, voleva diventare un calciatore professionista, diventare famoso ed uscire dalla povertà della sua terra. Venne tesserato dal Treviso, club militante allora in Serie B. Alla guida dei veneti c’era Mauro Sandreani. La squadra biancoceleste lottava per non retrocedere quella stagione ed il 27 maggio 2001, al “Liberati” di Terni, disputò il match-salvezza contro le “fere”. La rivalità tra le due tifoserie era forte, schierate apertamente per l’estrema sinistra (Ternana) e l’estrema destra (Treviso). E proprio in quella partita si mise in luce la tifoseria veneta, presente in terra umbra con una trentina di tifosi.

La tifoseria trevigiana non gradiva che nella squadra militasse un giocatore africano e ciò che avvenne al minuto 67 di quel Ternana-Treviso ebbe un impatto devastante: Sandreani decise di buttare nella mischia il giovane Omolade inserendolo al posto di Nicolella. Omolade entrò in campo, si posizionò nella sua parte di campo e dagli spalti occupati dai tifosi veneti, questi iniziarono ad inveire contro di lui facendo cori poco piacevoli. Il giocatore sentì quei cori e gli insulti ma lasciò “correre”. Ad un certo punto, i tifosi trevigiani ritirarono bandiere, striscioni ed uscirono clamorosamente dal loro settore. Come dire: fino a quando ci sarà in campo Omolade con la nostra maglia, noi non tiferemo la squadra. Caterva di fischi da parte del “Liberati”.

La notizia dei fatti di Terni fece subito il giro del Paese: il Treviso era sulla bocca di tutti, il suo main sponsor minacciò di rescindere il contratto perché non voleva avere a che fare con una squadra con tifosi razzisti, il presidente del Treviso prese le distanze e si arrabbiò molto, la città di Treviso fu etichettata come “razzista” per colpa della sua tifoseria.

La settimana dopo al “Tenni”, lo stadio del Treviso, si sarebbe giocato il match tra i padroni di casa ed il Genoa. Match ancora più importante per la lotta salvezza del club bianco-celeste.

All’ingresso in campo delle squadre successe un qualcosa di clamoroso ed inaspettato: tutti i giocatori del Treviso uscirono dagli spogliatoi e si diressero verso il centro del campo con la faccia dipinta di nero, a testimoniare la loro vicinanza ad Omolade, provocando i tifosi come dire: tutti e undici siamo neri, lascerete ancora gli spalti?. Un gesto che è piaciuto a tutti e che ha fatto ancora più clamore (in positivo) rispetto ai fatti deprecabili del “Liberati” della settimana precedente. Fu uno schiaffo al razzismo e a quella sparuta parte razzista di tifosi del Treviso.

Per la cronaca, la partita terminò 2-2, Omolade subentrò ancora a Nicolella e siglò un gol (quello del momentaneo 2-1). A fine stagione il Treviso retrocesse in Serie C1 e a fine anno il giocatore e la sua squadra vinsero il Premio Fair Play UEFA.

Da quel 27 maggio 2001, abbiamo visto negli stadi italiani diversi episodi di razzismo contro giocatori. L’elenco è lungo: il milanista di origine ghanese Kevin Prince Boateng che, il 3 gennaio 2013, durante l’amichevole contro la Pro Patria, stufo dei continui insulti rivoltogli dai tifosi bustocchi, prese la palla, la calciò verso di loro ed il giocatore ghanese (nato in Germania) decise di lasciare il campo insieme alla squadra; Mario Balotelli che il 3 novembre 2019, stufo degli insulti e dei “buuu” da parte dei tifosi del Verona al “Bentegodi”, prese la palla e la calciò contro la curva di casa in segno di disprezzo e rabbia; Samuel Eto’o che in un Cagliari-Inter, continuamente provocato dai tifosi sardi, dopo il gol mimò di essere una scimmia. Marco André Zoro, difensore del Messina che durante il match contro l’Inter del 27 novembre 2005, stanco dei continui insulti e “buuu”, prese la palla, fermò il giocò e minacciò di lasciare il campo, ma i suoi compagni e gli avversari gli andarono vicino, lo convinsero a non lasciare il rettangolo di gioco per farlo dimostrare migliore di quei tifosi.

Per non parlare poi dei clamorosi casi contro Ronny Rosenthal e Maickel Ferrier: il primo, di religione ebraica, non fu tesserato dall’Udinese nella stagione 1989/1990 non perché avesse problemi fisici ma perché parte della tifoseria bianconera si era macchiata di scritte antisemite contro il giocatore israeliano per intimare il club a non tesserarlo; il secondo fu tesserato dal Verone nel 1996 ma fu prestato alla Salernitana perché i tifosi gialloblu, durante un derby contro il Chievo, si erano opposti al tesseramento del giocatore colored olandese realizzando un manichino nero impiccato sugli spalti, oltre a striscioni e cori contro l’acquisto del giocatore,

Sono anni che sugli spalti dei nostri stadi (in tutte le categorie, praticamente) si sentono cori, insulti e “buuu” rivolti a giocatori stranieri di colore. Una vera piaga difficile da curare, nonostante gli sforzi delle istituzioni e del mondo del calcio. Lo scorso anno durante gli Europei abbiamo visto alcuni giocatori inginocchiarsi prima del calcio d’inizio in favore del movimento “Black Lives Matter” nato a seguito della morte di George Floyd il 20 maggio 2020 a Minneapolis per mano di un agente di polizia e questa decisione non è stata approvata completamente: la nostra Federcalcio ha dato una sorta libertà di scelta ad ogni giocatore di inginocchiarsi prima del calcio d’inizio di ogni partita. O ci si schiera o non ci si schiera.

Sono anni (anzi, decenni) che si cerca di combattere il razzismo con iniziative di ogni tipo e, dal 2005, l’ONU ha dichiarato il 21 marzo la “giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale” in ricordo dei fatti di Shaperville, in Sudafrica, quando, il 21 marzo 1960, 70 manifestanti di colore furono uccisi dai poliziotti durante una protesta contro l’apartheid. Eppure ogni volta si fa sempre un passo indietro e tutto viene mandato alle ortiche. Tutti si riempiono le parole di buone parole ed iniziative lodevoli, solo che alla fine si torna sempre al punto di partenza: troppi tifosi durante le partite si macchiano di gesti veramente negativi come i “buuuu” quando un giocatore di colore perde palla o sbaglia un gol o insultarlo pesantemente. Nonostante si cerchi sempre di stigmatizzare gli accaduti, sembra che i tifosi (non tutti, ma una sparuta parte) facciano davvero orecchie da mercante, continuando con ululati ed insulti, costringendo le loro squadre a pagare multe su multe. Perché l’insulto razziale rivolto ad un giocatore non solo ferisce moralmente e psicologicamente il giocatore in questione, ma non è neanche il classico sfottò da stadio.

Molti vorrebbero che gli arbitri fischiassero la fine della partita per porre fine agli insulti razzisti, ma mai nessun arbitro ha mai preso questa decisione drastica: è capitato che l’arbitro sospendesse per alcuni minuti l’incontro intimando lo speaker dello stadio di dire di smetterla con i cori, ma mai una partita è stata sospesa per razzismo. E proprio l’assenza di un pugno di ferro permette ad alcuni “tifosi” (giustamente tra virgolette perché chi insulta un avversario solo per il colore della pelle non può essere definito tifoso) di fare spallucce e continuare a sentirsi libero di insultare.

Per non parlare di ciò che avviene nelle categorie inferiori o a livello giovanile: una “terra di nessuno” dove la maleducazione ed il poco rispetto dell’avversario sono forse ancora maggiori rispetto al mainstream. E’ stato eclatante ciò che avvenne a Bagnolo, nel Reggiano, il 24 novembre 2019: durante la partita tra Bagnolese e Agazzanese, Omar Daffe, portiere dell’Agazzanese di origine senegalese, all’ennesimo insulto razzista proveniente dagli spalti, decise di lasciare il campo per protesta e tutti i suoi compagni lo seguirono uscendo dal campo. Il giocatore venne espulso perché aveva lasciato il campo, ma la Federcalcio gli ha dato un incarico molto importante ovvero si occuperà dello sviluppo delle campagne di sensibilizzazione contro i fenomeni di razzismo nei campi di calcio.

I problemi sono gli stadi: da sempre luogo di ritrovo di alcune persone che usano l’essere una massa per riversare verso gli avversari le loro frustrazioni ed il loro odio che durante la settimana non riescono a sfogare. E poi violenza e politica fanno spesso capolino nelle curve, i luoghi dello stadio dove provengono di più i cori e gli insulti razzisti, con l’esposizione di bandiere e simboli inneggianti il nazismo ed il fascismo. E la mente vola agli adesivi con l’immagine di Anna Frank vestita con la maglia della squadra della Roma da parte dei tifosi laziali. Ma anche alcune persone ai vertici del nostro calcio si sono macchiati di gaffe incredibili: uno su tutti, Carlo Tavecchio quando parlò, da Presidente della Lega D, di “Opti Oba [che] è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. La prima di una serie di gaffe imperdonabili da parte del Presidente della FIGC (contro donne calciatrici, ebrei, omosessuali).

Il razzismo non è insito in ognuno di noi, ma è un fattore culturale: il razzismo non deve esistere perché siamo tutti uguali. E questa non è retorica o buonismo: siamo tutti uguali, nessuno è diverso da un altro. Ci sono bravi e meno bravi, ma non esistono differenze. Ed invece il razzismo è una cosa (perché è una “cosa”) che esiste da fin troppo tempo: era il 1894 quando nacque l’”affare Dreyfus” ed il “J’accuse” di Emile Zola di quattro anni dopo in tutela di Alfred Dreyfus, militare francese di religione ebraica accusato ingiustamente di alto tradimento. Poi sono arrivati i Protocolli dei Savi di Sion e il falso piano di conquista del Mondo del Mondo da parte degli ebrei, il nazismo di Hitler che propugnava la razza ariana superiore a tutte le, poi l’Italia fascista con le leggi razziali, l’apartheid sudafricano e la lotta al razzismo portata avanti da Martin Luther King e che ebbe in Rosa Parks la paladina (inconsapevole) della lotta alle differenze tra persone di pelle diversa. L’uomo non è razzista per natura: lo diventa. E come lo diventa? Con l’ignoranza, la poca conoscenza della storia, il poco rispetto degli altri.

La vicenda di Akeem Omolade quest’anno compirà 21 anni: il razzismo non è morto e purtroppo “camperà” ancora. Se per combattere il Covid-19 abbiamo dovuto vaccinarci, indossare le mascherine ed evitare assembramenti, sarebbe bello che esistesse un “vaccino” contro razzismo e xenofobia.

La “cura” purtroppo non c’è, ma si può prevenire. Bisogna impegnarsi però ed il razzismo non va combattuto solo il 21 marzo in ricordo dei fatti di Shaperville. Ogni giorno deve essere il 21 marzo.

 

immagine in evidenza tratta da www.tuttocalcioestero.it