di Alessio Marrari
Il cambiamento autentico dovrebbe sempre rappresentare un arricchimento culturale, non una regressione mascherata da progresso. Quello che stiamo vivendo oggi non può essere definito “evoluzione” perché ha provocato un drammatico crollo del livello culturale generale: la superficialità ha sostituito la profondità, l’apparenza ha cancellato la sostanza, e l’immediatezza ha eliminato la riflessione critica. Una vera trasformazione sociale dovrebbe elevare le capacità intellettuali e critiche della collettività, ampliare l’accesso a conoscenze di qualità e rafforzare i legami culturali significativi. Quando invece il cambiamento impoverisce il patrimonio culturale e riduce la complessità del pensiero a slogan e immagini, non stiamo assistendo a un’evoluzione ma a una pericolosa involuzione che tradisce il potenziale di crescita dell’umanità. Il vero progresso si misura dalla capacità di una società di diventare più colta, più consapevole e più saggia, non più veloce nel consumare contenuti vuoti. Siamo immersi in un’era dove l’apparenza domina sull’essenza, dove l’essere visibili conta più del valore autentico, e dove la comunicazione è stata privata dei suoi contenuti significativi per lasciare spazio a un continuo teatro dell’ego. Il fenomeno del divismo sui social media, che un tempo caratterizzava esclusivamente le star del cinema e della musica, è ora diventato un elemento diffuso e onnipresente nella società. Attualmente, qualsiasi persona può assumere il ruolo di protagonista su una scena digitale, a condizione che riesca a catturare l’attenzione, creare un consenso momentaneo e realizzare contenuti visivi in grado di provocare reazioni immediate. Tuttavia, quali sono le conseguenze di tutto questo? Questa adorazione della visibilità si riscontra in ogni ambito: nelle istituzioni pubbliche, che appaiono più concentrate nel condividere immagini di cerimonie ufficiali, incontri diplomatici e apparizioni nei posti d’onore, anziché nel comunicare scelte politiche, traguardi concreti o strategie a lungo termine; nelle realtà aziendali, che inseguono ossessivamente i meccanismi degli algoritmi compromettendo l’eccellenza in nome del coinvolgimento digitale; e nei cittadini comuni, sempre più orientati verso la costruzione di un’identità digitale di stampo narcisistico. La questione fondamentale non sta semplicemente nell’evolversi naturale degli strumenti comunicativi, come le piattaforme social, la rapidità delle connessioni internet o l’egemonia della cultura visiva, ma in quello che è andato perduto durante questo processo di trasformazione: il contenuto autentico, la profondità, le competenze reali, la distinzione necessaria tra sfera pubblica e privata, tra vera comunicazione e mera propaganda, tra divulgazione informativa e puro intrattenimento. Ci troviamo immersi in un fiume ininterrotto di fotografie, frasi ad effetto e dichiarazioni roboanti, che sembrano concepite principalmente per raccogliere approvazioni e reactions digitali piuttosto che per stimolare la riflessione o generare trasformazioni concrete nella società. Il divismo delle piattaforme social, nella forma in cui si presenta attualmente, è intimamente connesso a una profonda crisi dei principi culturali fondamentali. Ci interroghiamo con crescente frequenza: chi sono realmente queste figure così esposte mediaticamente? Quali capacità concrete possiedono? Quale contributo apportano al confronto pubblico, allo sviluppo sociale, al patrimonio culturale collettivo? E, aspetto ancora più significativo: per quale motivo milioni di persone li seguono devotamente, li prendono a modello, li trasformano in archetipi da emulare? La risposta a questi quesiti, sfortunatamente, non offre alcuna rassicurazione. Il successo viene quantificato attraverso metriche numeriche, non attraverso l’eccellenza qualitativa. La conoscenza passa in secondo piano rispetto alla presenza scenografica. E l’autorevolezza è diventata una questione puramente estetica, non più fondata su principi etici. Questa situazione ci obbliga a una meditazione critica e impellente. Il problema non riguarda solamente i protagonisti di questa cultura dell’esteriorità, ma coinvolge anche coloro che li legittimano e li sostengono: un pubblico immenso, che sembra sempre più affamato di evasione e sempre meno esigente riguardo alla qualità dei contenuti. Non si tratta meramente di un adattamento ai tempi moderni o di una nuova modalità comunicativa, ma di un vero e proprio arretramento culturale, dove l’aspetto formale ha fagocitato la sostanza e, nel compiere questa operazione, ha eroso le basi di una società che dovrebbe fondarsi sul pensiero critico, non sulla messa in scena. Nel cuore del fenomeno del divismo sociale si trova un significativo deficit di contenuti di valore. I protagonisti di questa dinamica, dalle istituzioni fino alle figure pubbliche, sono frequentemente più focalizzati sull’aspetto esteriore che sulla sostanza effettiva. I posti di prestigio durante gli eventi vengono occupati non tanto da coloro che apportano contributi attraverso idee innovative o azioni concrete, ma da coloro che riescono a proiettare un’immagine di affermazione personale tramite l’esposizione sui media. Le cerimonie inaugurali e gli annunci vengono amplificati non per il loro impatto sostanziale sulla realtà, ma per la loro capacità di catalizzare l’interesse e di attirare l’attenzione mediatica. Un esempio rappresentativo del divismo contemporaneo sono gli “influencer” del mondo digitale, personalità spesso caratterizzate dall’assenza di contenuti profondi o significativi, ma seguite da masse di persone. Questo seguito è frequentemente il prodotto di una cultura che privilegia l’apparenza e la soddisfazione visiva immediata, piuttosto che l’analisi critica o l’approfondimento culturale. Gli influencer riescono a costruire un vasto pubblico non tanto grazie alle loro competenze specifiche o al loro bagaglio di conoscenze, ma per la loro abilità nell’intrattenere o nel rappresentare uno stile di vita ambito e desiderabile. L’espansione del divismo sociale comporta conseguenze profonde sia dal punto di vista culturale che sociale. Costituisce il sintomo di una trasformazione più generale nella società contemporanea, dove la superficialità viene talvolta preferita alla profondità di analisi, e dove l’immagine individuale è considerata più importante dell’impegno concreto e della competenza specifica. Questo fenomeno pone interrogativi fondamentali riguardo al livello culturale generale della società, questionando se il progresso nelle tecnologie e nella comunicazione abbia effettivamente condotto a una maggiore saggezza e conoscenza, oppure se abbia semplicemente amplificato la ricerca di soddisfazione immediata e superficiale.