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Città di Novara

Il Blog dei Cittadini

L’estate in cui bastava un juke box, un falò e una lettera per sentirsi vivi

DiAlessio Marrari

Lug 25, 2025

di Alessio Marrari

Quella Fiat 500, quell’estate, quella vita che non tornerà più

C’era una volta un’estate che non durava sette giorni ma tre mesi interi. C’era una volta la partenza all’alba, l’aria ancora fresca e l’emozione che scaldava l’anima più del sole. Una Fiat 500 piccola come un’idea ma capiente come un sogno, con le valigie legate sul portapacchi, la plastica a proteggerle e i bambini stipati ovunque: davanti, dietro, perfino nel bagagliaio. Le madri con la borsa piena di panini, i padri concentrati alla guida, tra una curva e una sigaretta, direzione Sud. Perché da Torino, da Milano, da Brescia e da ogni angolo del Nord, si partiva verso il mare del Sud, verso i nonni, i paesi, le spiagge calde e le case con le persiane verdi. Non esisteva aria condizionata: si aprivano i finestrini, si sperava nel vento, e si andava. Sempre. Senza mai lamentarsi. Erano gli anni in cui le madri e i figli restavano giù per tre mesi, mentre i padri tornavano al lavoro col cuore mezzo vuoto. Alcuni li accompagnavano in macchina, altri li spedivano in treno, caricando bagagli e speranze. Ogni anno si aspettava l’arrivo degli amichetti del Nord come si aspetta il Natale: con ansia, felicità e la certezza che sarebbe stata una nuova, meravigliosa avventura. I quartieri si popolavano, le seconde case si riaprivano, le voci tornavano a riempire i cortili. Era un’Italia viva, rumorosa, felice. Un’Italia che non aveva bisogno di troppo per sentirsi ricca: bastava una casa al mare, anche in affitto, una sdraio, un ombrellone lasciato direttamente in spiaggia, e nessuno lo toccava. Nessuno. Perché la fiducia era parte del paesaggio, come la sabbia tra le dita. Le spiagge non erano attrezzate, non c’erano prezzi folli per un lettino. Si viveva con poco, ma si aveva tutto. Si arrivava al mare col secchiello, le ciabatte, le bottiglie d’acqua calda e la radio a transistor. E quella radio suonava canzoni che ancora oggi, a distanza di decenni, bastano da sole a farci venire il nodo alla gola. C’era “Un’estate al mare” di Giuni Russo che ci faceva sognare sotto l’ombrellone, “Tropicana” dei Gruppo Italiano che faceva ballare i bambini sulla sabbia bollente, “All Night Long” di Lionel Richie che suonava nei bar affacciati sul lungomare, mentre si sorseggiava una gazzosa o una cedrata col ghiaccio e la cannuccia. La giornata seguiva un ritmo tutto suo. Il mare la mattina, i pranzi in famiglia all’ombra degli alberi, sotto i balconi, nei vialetti tra le case, con i tavoli uniti, le tovaglie a quadri, i piatti di pasta al forno e i bicchieri di plastica colorata. Le madri che urlavano ai bambini “fermatevi che sudate”, i padri che, se c’erano, versavano il vino freddo a tutti. Poi arrivava la pennichella, sacra e intoccabile: finestre aperte, ventilatori accesi, persiane abbassate. Fuori il canto delle cicale, dentro il silenzio rotto solo dal rumore delle stoviglie lavate. E si dormiva, si sognava, si viveva lentamente, come se il tempo non avesse fretta. Nel pomeriggio si tornava in spiaggia. Si aspettavano le cinque per non scottarsi, e poi giù: il mare più bello, il sole più dolce. I bambini giocavano, gli adulti chiacchieravano, si raccoglievano conchiglie e si costruivano castelli. E sullo sfondo, il juke box che suonava ancora “Self Control” di Laura Branigan, “Say You, Say Me” di Lionel Richie, “Moonlight Shadow” di Mike Oldfield, e ognuna di quelle canzoni diventava una finestra sulla felicità. Ogni moneta da 50 o 100 lire infilata nel juke box era un’emozione, una dedica, una dichiarazione d’amore non detta. La sera era magia. Si scendeva in strada con le infradito, i capelli ancora umidi e il cuore aperto. Le risate riempivano le piazze, si giocava a calcetto, a pallavolo, si facevano i gavettoni, anche se non era Ferragosto. Poi i falò sulla spiaggia, le chitarre, le canzoni stonate ma sincere, i bagni di mezzanotte sotto la luna, gli abbracci rubati. E quegli amori estivi, così intensi, così veri, così passeggeri. Ci si prometteva di scriversi, e lo si faceva davvero. Le lettere erano il ponte tra l’estate e l’inverno, tra una regione e l’altra, tra due cuori lontani. Bastava un francobollo per far battere il cuore. E poi arrivava Ferragosto, esplosivo e malinconico insieme. Tra feste, tornei, mangiate e fuochi d’artificio, si sentiva che stava finendo qualcosa. I primi temporali dopo il 15 agosto bagnavano la sabbia e i pensieri. I giochi si facevano più silenziosi, le serate più corte. Tra il 25 e il 30 agosto iniziavano le partenze. Le famiglie si rimettevano in viaggio. Le valigie tornavano sul tetto, i finestrini si aprivano di nuovo, ma stavolta non per cercare refrigerio, ma per trattenere l’ultimo respiro di estate. I saluti erano strazianti: bambini che piangevano per gli amichetti lasciati, nonni che si sforzavano di sorridere, genitori con le lacrime che scendevano senza farsi vedere. E dietro ogni macchina che partiva, restava un silenzio pieno di ricordi. Settembre arrivava piano, portando con sé i turisti del nord Europa: svizzeri, tedeschi, olandesi. Ma non era la stessa cosa. Manca il cuore, mancava la voce, mancava il nostro caos. Le spiagge erano ancora belle, ma vuote. Restava solo chi abitava lì, i fortunati che potevano godersi anche quel mese in più, aspettando che la scuola ricominciasse. E si tornava a casa, a scuola, al lavoro. Ma dentro ci portavamo un’estate. Una stagione intera che sembrava un’altra vita. Oggi è cambiato tutto. Si fa una settimana di vacanza, in luoghi esclusivi scelti per farsi vedere, non per vivere. Si spende quanto allora si spendeva in tre mesi, ma non si ha niente in cambio. Solo qualche foto, qualche story, qualche sorriso finto. Le emozioni non si scrivono più, non si aspettano più: si consumano. I juke box sono spariti, i falò vietati, i gavettoni multati, i bambini con gli smartphone in mano e senza sabbia sotto i piedi. Gli amori durano meno di una connessione, le lettere sono state sostituite da messaggi che spariscono dopo pochi secondi. “Cosa resterà di questi anni ’80?”, cantava Raf, e ogni volta che quella voce riecheggia da una radio o da un ricordo, ci viene da rispondere: noi. Restiamo noi, con il cuore pieno di quegli anni che ci hanno insegnato ad amare, ad aspettare, a vivere davvero. E questa foto, con quella Fiat 500 piena di vita, ci ricorda che la felicità non era una meta, ma un viaggio. E noi, in quel viaggio, ci siamo stati davvero. Quelle estati non erano solo vacanze, erano stagioni dell’anima. Non si partiva solo per il mare: si partiva per ritrovarsi. Si caricavano le valigie sul tetto della macchina e, insieme a loro, si portavano sogni, emozioni, abbracci lasciati in sospeso per un anno intero. L’estate degli anni ’80 era l’attesa, il ricongiungimento, la certezza che la felicità esistesse davvero e che durasse tre mesi. Ogni risveglio era accompagnato dal profumo del caffè e dal vociare dei bambini giù in strada, ogni sera un appuntamento fisso con la risata, la musica che usciva dal jukebox, le biciclette senza casco, la sabbia ancora calda sotto i piedi. Si viveva fuori, si stava insieme davvero, non per un selfie, ma per condividere il tempo, l’aria, la vita. Ogni estate era una promessa mantenuta. La felicità aveva il suono di una moneta da 50 lire che cadeva nel jukebox, una canzone che diventava colonna sonora della tua vita, un amore nato sul bagnasciuga che si spegneva a fine agosto con un biglietto e un “ti scriverò”. Erano giorni pieni di significato anche quando non succedeva niente, perché bastava esserci. Bastava guardarsi, giocare, aspettare, tornare. Lentamente, come solo allora era concesso, si viveva un’estate fatta di respiri larghi, finestre aperte, letti pieni di sabbia e anime leggere. La malinconia che arrivava a fine agosto non era dolore, era ricchezza emotiva, il segno che avevi vissuto qualcosa che ti sarebbe rimasto dentro per sempre. E allora sì, oggi possiamo solo chiederci: Cosa resta davvero di quelle estati se non tutto ciò che ci manca ogni giorno della nostra vita?