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#BlackoutSpagna: anatomia di una civiltà sotto shock. L’analisi di Alessio Marrari

DiAlessio Marrari

Apr 29, 2025

di Alessio Marrari

Il 22 febbraio 2025 pubblicavo un articolo dal titolo provocatorio: “Game Over? Vita dopo la morte di Internet o disagio globale?”. Sembrava una riflessione teorica, un monito. E invece, appena due mesi dopo, si è trasformato in realtà: ieri un blackout totale ha paralizzato Spagna, Portogallo e parte della Francia, gettando milioni di persone nel caos e nel panico. Coincidenza o premonizione?

Il 28 aprile 2025 è una data che ha messo a nudo le fragilità profonde della società moderna. In pochi secondi, un blackout di proporzioni gigantesche ha oscurato la Penisola Iberica, lasciando milioni di persone in Spagna e Portogallo senza elettricità. Treni bloccati sulle tratte, aeroporti paralizzati, semafori spenti nelle metropoli, ospedali in emergenza: tutto si è fermato. L’improvvisa caduta di potenza di 15 gigawatt in Spagna ha causato il collasso di oltre il 60% della domanda elettrica, innescando un effetto domino che ha coinvolto ogni aspetto della vita quotidiana. Non è stata una semplice interruzione di corrente, ma una frattura nel tessuto operativo, psicologico ed economico della civiltà contemporanea. In un contesto dove ogni attività dipende dall’elettricità, le conseguenze si sono fatte sentire a cascata. La prima grande difficoltà è stata la disconnessione totale. La rete mobile è crollata quasi ovunque e le connessioni internet sono diventate inaccessibili. Senza possibilità di comunicare, senza aggiornamenti ufficiali, milioni di persone si sono ritrovate nel buio anche informativo. Le app di messaggistica erano inutilizzabili, le notifiche non arrivavano più, i social erano silenziosi. Chi aveva bisogno di notizie, di sapere se i familiari stavano bene, non ha potuto fare nulla. Molti si sono accorti per la prima volta di quanto la propria sicurezza emotiva dipenda da un oggetto piccolo come uno smartphone, e di quanto questo sia vulnerabile senza una presa elettrica. Ma il disagio non si è limitato alla comunicazione. In molte città, senza energia elettrica, i sistemi di pagamento elettronico si sono bloccati. I POS non funzionavano, i bancomat erano fuori uso e le carte di credito o debito si sono rivelate strumenti del tutto inutili. In queste situazioni, chi non aveva denaro contante si è trovato improvvisamente in difficoltà, persino per acquistare beni essenziali come acqua, cibo o farmaci. Alcuni negozi hanno accettato solo contanti, altri hanno chiuso per mancanza di alternative. Si è tornati a una dimensione economica arcaica, fatta di contanti, baratti improvvisati o, in alcuni casi, di rinuncia forzata. L’intera struttura della finanza personale ha vacillato, mostrando quanto sia fragile il nostro modello economico iperdigitalizzato. Gli ospedali, altro pilastro della società, hanno resistito solo grazie ai generatori d’emergenza. Ma anche questi hanno un’autonomia limitata. I reparti di terapia intensiva, le sale operatorie, i macchinari per la diagnostica: tutto è rimasto operativo per merito di motori a diesel che, se l’interruzione fosse durata più a lungo, avrebbero rischiato di spegnersi a loro volta. In alcuni centri, gli interventi non urgenti sono stati sospesi, le sale operatorie chiuse e il personale di emergenza mobilitato per gestire le urgenze a mano, senza supporti digitali. Un ritorno all’essenziale, ma anche un carico di stress psicologico enorme per medici, infermieri e pazienti. Sul piano economico generale, i cardini della produzione e dei servizi si sono disgregati in poche ore. Le fabbriche si sono fermate, gli uffici sono rimasti al buio, i server delle aziende si sono spenti bruscamente causando perdite di dati, danni infrastrutturali e fermi macchina estesi. Le borse, pur resistendo in altri Paesi, hanno registrato un’ondata di incertezza. Le attività commerciali e produttive, grandi e piccole, si sono trovate incapaci di operare: niente email, niente ordini, niente spedizioni. Le catene logistiche si sono interrotte, anche perché i sistemi di tracciamento e distribuzione basati su cloud non erano accessibili. Tutto questo ha avuto un impatto psicologico devastante. Non solo a livello individuale, con stati d’ansia, frustrazione, attacchi di panico e senso di isolamento, ma anche a livello collettivo. La mancanza di informazioni certe ha alimentato voci incontrollate, teorie del complotto, sospetti e diffidenza verso le istituzioni. La popolazione si è divisa tra chi ha cercato di aiutare e chi ha reagito con chiusura, rabbia o sospetto. Il blackout ha agito come detonatore emotivo, tirando fuori l’istinto, il bisogno di sopravvivenza, la paura della fine. Le code ai distributori automatici, gli scaffali vuoti nei supermercati, la corsa ai generatori portatili sono stati segnali di una società che, senza energia, rischia di cadere nel caos. Eppure, paradossalmente, proprio nel buio si è riscoperta anche una forma di umanità. Quartieri che si sono organizzati per condividere risorse, vicini che si sono aiutati, famiglie che hanno passato ore a parlare, finalmente lontani dalla distrazione degli schermi. Ma resta il fatto che un evento simile, pur temporaneo, dimostra quanto tutto il nostro sistema sia precario. Dipendiamo dalla corrente per vivere, lavorare, comunicare, curarci, informarci. E se questa corrente si spegne, anche solo per qualche ora, quello che viene giù non è solo un traliccio: è l’impalcatura stessa della società. Il blackout del 28 aprile non è solo un evento da analizzare con grafici e tabelle. È un monito. Una prova generale di cosa può accadere quando un’intera civiltà, abituata all’efficienza digitale, è costretta a confrontarsi con il silenzio, il buio e la lentezza. È la dimostrazione che senza elettricità, ciò che chiamiamo modernità si trasforma in un castello di sabbia. E che per affrontare il futuro, non bastano reti più sicure o centrali più potenti: servono persone più consapevoli, più pronte e meno dipendenti da un sistema che, alla prima interruzione, rischia di cancellare anche chi siamo.

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