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Città di Novara

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Commentare rispecchia il nuovo pensare? L’inganno e la “Pandemia Digitale”.

DiAlessio Marrari

Mag 7, 2025

“Abbiamo sostituito un’idea con un’emoji. Un concetto, con una faccina. La riflessione, con un gesto automatico del pollice. È il segno più evidente della nostra incapacità crescente di pensare e articolare il pensiero. In questa che definisco senza mezzi termini una Pandemia Digitale, le persone trascorrono ore a scrollare video su TikTok, Instagram, Facebook, lasciandosi ipnotizzare dagli algoritmi. Metabolizzano passivamente i messaggi lanciati dai creator, spesso infarciti di concetti poveri, semplicistici, se non apertamente falsi, espressi con un’ignoranza buia che sembra provenire da un secondo Medioevo. Eppure vengono presi per buoni, condivisi, idolatrati. Non si studia più: si consulta Google, si chiede a un’intelligenza artificiale, si cercano risposte pronte dalla rete. Ma dove sono finiti i libri scritti da menti che hanno studiato, approfondito, specializzate in aree di interesse che hanno storicamente costruito il grado di istruzione collettiva? A prendere polvere sugli scaffali delle librerie. Perché non si trova il tempo per studiare, o almeno per leggere? Forse la risposta sta nei disturbi dell’attenzione sempre più diffusi, e nei comportamenti compulsivi che tali disturbi generano. Ma è legittimo chiedersi: questi disturbi sono solo neurologici o sono indotti, amplificati, coltivati dagli stessi algoritmi che ormai governano le nostre giornate digitali?” – Alessio Marrari

La polemica digitale come specchio della società: un’analisi sociologica dei commenti online

Nell’ecosistema digitale contemporaneo, leggere è diventato un atto quasi sovversivo. Sempre più spesso, le persone non aprono neppure l’articolo: si fermano al titolo, si indignano, commentano, insultano. E nel farlo non attaccano solo il contenuto, che nella maggior parte dei casi ignorano del tutto, ma si scagliano direttamente contro il giornalista che ha firmato il pezzo. Non importa se si è documentato, se ha verificato le fonti, se ha offerto un’analisi articolata o ha raccolto testimonianze. Ai lettori frettolosi interessa solo che il titolo “sembra” dire qualcosa che li fa arrabbiare. La figura del giornalista, un tempo riconosciuta come intermediario tra fatti e opinione pubblica, oggi è sempre più spesso bersaglio di diffidenza, sospetto, disprezzo. “Venduto”, “servo del potere”, “marionetta dei politici” sono solo alcune delle etichette più frequenti rivolte a chi osa raccontare qualcosa che non conferma il pregiudizio dominante.

Per comprendere queste dinamiche, immaginiamo un ipotetico titolo: “A Milano si pensa a un biglietto d’ingresso per accedere al centro storico nelle ore di punta.” Subito sotto, il prevedibile diluvio di commenti: “Eccola l’ennesima tassa mascherata! Ladri!”, “Poi si lamentano che i negozi chiudono…”, “Solo per i ricchi, i poveri possono restare a casa loro!”, “Venderanno pure l’aria tra poco!”, “E questo lo chiama giornalismo? Ma vatti a cercare un lavoro vero.” Questi commenti, apparentemente banali, sono in realtà indicatori precisi di un malessere collettivo e ci rivelano sei tendenze sociologiche rilevanti.

Una delle reazioni più diffuse riguarda il sospetto immediato che dietro ogni proposta si nasconda un tornaconto economico per le istituzioni. Espressioni come “vogliono solo soldi” o “ennesima gabella per fare cassa” sono sintomi di una sfiducia sistemica che non nasce dal nulla. Anni di corruzione, politiche opache, mancata trasparenza e promesse disattese hanno reso il cittadino medio cinico, pronto a leggere ogni iniziativa come un attacco al proprio portafoglio più che come una misura di gestione o regolazione.

A questo si aggiunge un secondo fenomeno: la polemica come forma d’identità. Commentare non è più un modo per confrontarsi, ma per affermarsi, per dire “io la penso così e chi non è d’accordo è complice o idiota.” Il tono è spesso impulsivo, ironico, aggressivo. Il contenuto del post è secondario: l’importante è lasciare un segno, dimostrare presenza, canalizzare frustrazione.

Si crea così un terzo paradosso: la protesta permanente contro tutto e il suo opposto. Si vogliono meno auto in città, ma si odiano le ZTL. Si invoca ordine, ma si demonizza ogni controllo. Ogni proposta viene bocciata senza visione d’insieme, come se fosse possibile ottenere servizi pubblici migliori senza regole, sicurezza senza sanzioni, libertà senza responsabilità. Questo deriva da una mancanza strutturale di pensiero sistemico e da una carenza di educazione civica: si valuta tutto in modo isolato, immediato, semplificato.

La semplificazione estrema trova il suo alleato nell’ironia: una difesa emotiva, una strategia per prendere distanza dalla realtà. L’uso massiccio di sarcasmo, meme, emoji come 🤡 o 🤦🏻‍♂️ diventa un modo per ridicolizzare ciò che si teme o non si capisce. Si ride di tutto, si banalizza tutto. Ma quando nulla è più serio, tutto diventa sospetto, e si smarrisce la capacità di distinguere tra problemi risolvibili e inevitabili contraddizioni del vivere comune.

Un ulteriore elemento è il livello argomentativo molto basso di molti commenti. Non si tratta solo di errori ortografici o grammaticali, ma di incapacità strutturale di costruire un ragionamento. Molti utenti rispondono con slogan, accuse generiche, pensieri scollegati. Questo è il riflesso di una crisi profonda del pensiero critico, dovuta a decenni di impoverimento educativo e informativo. In questo contesto, i social non aiutano. Al contrario, premiano la rapidità, la reazione impulsiva, il contenuto virale. Chi argomenta perde visibilità; chi urla, viene premiato.

Infine, sempre più spesso i social si trasformano in un tribunale sommario. Non si legge, non si riflette, ma si invoca immediatamente punizione. Se una decisione politica non piace, si chiede di licenziare il sindaco, di radere al suolo il Comune, di punire i “colpevoli” anche senza sapere chi siano e cosa abbiano fatto davvero. Questo giustizialismo digitale nasce da una crescente sfiducia nella giustizia ufficiale, nella politica, nelle istituzioni. Ma sostituire il diritto con la vendetta emozionale non è mai una buona idea: mina alla base la democrazia, riduce la complessità a un gioco di bersagli e carnefici e alimenta una spirale di odio che non ha sbocchi costruttivi.

I commenti online, quindi, non sono solo un fastidio o un fenomeno marginale. Sono il riflesso profondo di una società attraversata da frustrazione, paura, disillusione, ma anche da un desiderio irrisolto di essere ascoltata e contare qualcosa. Rappresentano un termometro emotivo e culturale potentissimo. La sfida, oggi, è duplice: per i media, che devono continuare a informare con rigore senza lasciarsi intimidire dal rumore; per le istituzioni, che devono recuperare fiducia e trasparenza. Ma anche per i cittadini stessi, che devono riscoprire il valore del confronto e dell’argomentazione. Serve educazione civica, alfabetizzazione digitale, pensiero critico. Solo così potremo trasformare il commento da sfogo sterile a strumento di partecipazione consapevole e restituire allo spazio pubblico un senso più alto della semplice reazione emotiva.